IL SARKOZY ITALIANO
La difficile sfida che Veltroni deve affrontare sta nel decidere dove posizionare se stesso come leader e il nascente Partito democratico che è candidato a guidare. Veltroni ha due possibili opzioni strategiche: quella di rappresentare una reale innovazione del sistema politico e, quindi, di segnare l’inizio di una nuova stagione; oppure potrà interpretare un’ulteriore fase della eterna transizione italiana e, dunque, assumersi l’onere di impersonare la fine di una stagione. Primo del nuovo o ultimo del vecchio. Un’alternativa più secca non si potrebbe immaginare. Ma il fatto che Veltroni abbia deciso di pronunciare a Torino, al Nord, il discorso con cui probabilmente accetterà di giocare la partita fa capire che ha ben chiari rischi e posta in gioco.
Non è un caso che la sua candidatura, a lungo tenuta ai margini nella discussione attorno al Partito democratico, sia alla fine riemersa. Rilanciata non dalla consapevolezza di una classe dirigente forse troppo intenta a cooptare se stessa, ma imposta dalla forza delle cose. Vale a dire dai mutamenti strutturali intervenuti in questi mesi. La sconfitta alle elezioni amministrative a favore del centrodestra che ha rivelato la crisi con la parte più produttiva del Paese. Lo stato di sofferenza in cui versa il governo Prodi il cui simbolo è la lettera firmata da quattro ministri della sinistra radicale contro il ministro dell’Economia Padoa-Schioppa. Infine, l’allargarsi inesorabile della divaricazione tra realtà sociale e economica del Paese che teme i cambiamenti dettati dal mercato mondializzato e il sistema politico che fatica a fornire risposte in tempi rapidi. E non dare risposte veloci equivale a negarle. Ma l’elemento decisivo è stato l’avanzare sulla scena dell’elettore, delle sue preferenze, dei suoi obiettivi. Nel momento in cui Ds e Margherita hanno deciso di dare vita al Partito democratico e hanno stabilito il principio che il segretario sarebbe stato selezionato con il metodo delle primarie aperte ai cittadini, in quel momento buona parte della classe dirigente si è autoesclusa. Perché i cittadini difficilmente sceglierebbero di superare le proprie memorie e identità senza una diversa classe dirigente. Il nuovo deve mostrare un nuovo volto.
Veltroni, quindi, s’impone sulla base di questa legittimazione: quella degli elettori sui partiti che si sono illusi di gestire e incanalare il trapasso. Oggi Veltroni e il nascente Pd hanno l’occasione per rappresentare agli occhi del Paese quello che Silvio Berlusconi e Forza Italia hanno rappresentato nel 1992: l’innovazione da destra della politica nazionale «facendo assumere al sistema una conformazione compiutamente bipolare», come hanno scritto i professori Ceccanti e Vassallo nel libro «Come chiudere la transizione». Essi possono giocare il medesimo ruolo, partendo dalla sinistra moderata e rimescolando le carte. Ma possono farcela? Dipende dalle sue mosse. Veltroni sta dimostrando di essere un ottimo sindaco di Roma, un leader dall’immagine dialogante ma di sicura forza. Inoltre, non ha partecipato in prima persona alle vicende politiche recenti e non è coinvolto nella delusione che tocca Prodi. Come nota il prof. Segatti nell’articolo che pubblichiamo oggi, Veltroni è il leader che più sembra in grado di dare un profilo al Partito democratico e insieme quello più indistinto. Recarsi sulla tomba di don Milani non basta, anche se lancia il chiaro segnale di un erede della tradizione Ds alla parte cattolica e moderata del futuro Partito democratico.
La sua rielezione a Roma con un 68% dell’elettorato dimostra capacità di raccogliere voti in un ampio arco di ceti, potenzialmente di spostare consensi dal settore del centrodestra a quello del centrosinistra. Un altro punto a suo favore è che la sua discesa in campo apre qualche problema nel centrodestra: Berlusconi, l’uomo che ha cambiato l’Italia negli anni Novanta, rischia di apparire consumato. E non ci sarebbe da stupirsi se la corsa alla successione del Cavaliere si rianimasse. O se il campo del centrodestra venisse investito a sua volta da una ristrutturazione, di modo che a un «partito progressista» si contrapponga un «partito conservatore». Detto questo, Veltroni ha davanti a sé una sfida complessa. La coabitazione con il governo pone dei problemi. È chiaro che l’improvvisa accelerazione della sua designazione assume il significato di un distacco dai limiti che Prodi non sembra superare. D’altra parte Veltroni avrà tutto l’interesse a collaborare con il premier, perché la sua prossima leadership inevitabilmente beneficerà o pagherà successi o insuccessi del governo. Non a caso, Veltroni sembra aver scelto una tattica in due tempi: nel primo round assume la leadership, ma lascia in prima linea due vicesegretari in modo da non delegittimare Prodi e preservarsi per la battaglia; nel secondo round comparirà alla testa del nuovo partito.
E c’è da immaginare che la designazione a segretario del Pd equivalga alla designazione a premier in caso di vittoria. Non ci si può nascondere che la gestione di questa transizione sarà estremamente delicata. Anche perché Veltroni è chiamato a imprimere un profilo netto al Partito democratico. E questo richiederà la capacità di operare scelte chiare, persino controverse, capaci di infondere identità. La questione centrale è che sembra sul punto di spezzarsi il fragile equilibrio tra riformisti e radicali. La sinistra antagonista sta misurando il prezzo di stare al governo. Si accorge che essere partito di lotta e di governo è più facile a dirsi che a farsi. L’immagine folgorante di questa perdita di consenso si è avuta alla manifestazione di protesta per la visita di Bush: decine di migliaia in piazza, ma autogestiti, lontani dai partiti di riferimento (Rifondazione, Pdci, Verdi). Dove manifestavano i radicali al governo, invece, la piazza era quasi vuota. La sinistra radicale arretra come hanno dimostrato le elezioni amministrative. E la lettera dei quattro ministri esprime la rivendicazione di un ruolo, di una influenza diretta sulla linea del governo nella speranza di recuperare terreno. Berlusconi non perde occasione per rammentare che il governo è in mano alla sinistra massimalista, ma la sinistra massimalista non ne sembra convinta. In realtà, l’errore di fondo commesso da Prodi è stato quello di spostare l’assetto della maggioranza verso le forze massimaliste e poi cercare di dare soluzioni moderate ai problemi. Un equilibrio che non funziona.
Come non funzionò con Berlusconi e la Lega. Veltroni ha la chance di modificare questo assetto, spostandolo verso il centro e un riformismo possibile, fino al punto di avvisare che i riformisti possono separare i loro destini da una sinistra che rifiuta la responsabilità di cambiare il Paese. Solo facendo così, potrà riaprire per l’Unione la questione settentrionale e avanzare un’offerta di governo ai ceti produttivi che manifestano disagio. E potrà prospettare al Nord una modernizzazione da condividere. Assetto della coalizione e progetto per l’Italia nel quale il Nord recuperi centralità sono i dilemmi intrecciati ai quali paradossalmente deve dare risposta il sindaco di una Roma rilanciata. È difficile contrastare Berlusconi sul terreno dell’antipolitica. Il centrosinistra potrebbe avere una sola alternativa: contrapporre alla delusione nella politica il sogno di una nuova politica, imperniata su valori, regole (legge elettorale), orizzonti rinnovati. Nel Paese comincia a farsi largo l’idea che occorra uscire non dal bipolarismo, ma dal dualismo Berlusconi-Prodi che ingessa il sistema da un decennio. A Veltroni tocca in sorte di poter diventare il Sarkozy italiano, l’uomo che prima si è separato dal padre putativo Chirac, poi si è candidato alla successione, infine ha trasformato le regole del gioco con un governo trasversale che rappresenta non una maggioranza, ma la Francia. Vorrà Veltroni giocare una simile partita? Il problema non è tanto una possibile elezione plebiscitaria, anche se un confronto serrato tra candidati e linee diversi sul Pd, sarebbe preferibile. Il punto è dare forma e voce alle emozioni e aspettative di un Paese deluso, stanco, insicuro. Un Paese frammentato che ha bisogno di coraggio. Fiducia. Energia. Se vuole vincere, Veltroni non dovrà presentarsi solo come erede di Prodi, ma anche come un figlio di sinistra di Berlusconi.
Si rifletta sul fatto che i due sono entrambi rappresentanti di una cultura postfordista dell’immateriale: uno televisivo l’altro culturale, separati da una generazione. Come Blair vinse perché apparve come il continuatore laburista della Thatcher e Sarkozy quello liberale di Chirac, anche per Veltroni forse è questa la chiave che ne consentirà l’ascesa. L’essere insieme un leader di confine e dall’identità riconoscibile. Il grande avversario non si batte rinnegandolo, ma raccogliendo nel nuovo tempo, nelle nuove condizioni storiche, con idee e parole nuove, il segno del cambiamento che l’altro non può più imprimere.
Riproduzione riservata © Il Piccolo
Leggi anche
Video







