Il suicidio dell’Europa per un mondo nuovo

La Grande guerra aprì invece la strada alle dittature
Di Claudio Magris

di CLAUDIO MAGRIS

A Prosecco c’è un piccolo cimitero austroungarico della prima guerra mondiale. Ne ho parlato e scritto spesso, anche di recente, perché esso è collegato - almeno per me - ad una piccola storia che rivela tutta la candida ingenuità con cui l’Europa, con la Grande Guerra, si avviò al grande massacro e - come disse Benedetto XV, uno dei pochissimi ad aver visto con chiarezza la realtà - al proprio suicidio.

In quel cimitero è sepolto un ufficiale austriaco, padre del grande storico viennese Adam Wandruszka. Come mi raccontò lui stesso, egli si chiamava Adam perché sua madre era incinta quando il padre era partito per il fronte, dicendo che, se fosse nato un maschio, avrebbero dovuto dargli il nome di Adam. Da quella guerra, diceva con convinzione poco prima di morire sul Carso, sarebbe nato l’uomo nuovo, fraternamente amico di tutti gli altri, perché dopo quella guerra non ce ne sarebbero state mai più altre e il mondo sarebbe divenuto - o ritornato - un Paradiso Terrestre. Su tutti i fronti avversi, i quali si apprestavano a scannarsi, si pensava e si sentiva, almeno in grande maggioranza, allo stesso modo. La poesia russa di quegli anni è piena dell’attesa di un “uomo nuovo”, libero cittadino in un mondo di pace e di vita rinnovellata e in tutte le letterature si trova questa sensazione di una rigenerazione - non soltanto guerresca e bellicosa, come la intendevano i nazionalisti, ma anche nobilmente e fraternamente spirituale - che sarebbe seguita alla guerra. Tranne il lungimirante o almeno lucido pontefice e alcuni socialisti e anarchici pacifisti - mossi peraltro da sentimenti umanitari più che da un preciso giudizio storico - tutti auspicavano o almeno accettavano la guerra. Ogni paese pensava di dare una piccola bella lezione al nemico più vicino, ricavandone vantaggi territoriali o d’altro genere e non riuscendo a immaginare che le ostilità, da quasi tutti viste come un fenomeno di breve durata, potessero assumere dimensioni mondiali e una durata senza fine. I nazionalisti di ogni paese vagheggiavano accrescimenti di potenza grazie alla facile vittoria; molti liberali si attendevano la correzione di antiche ingiustizie; i comunisti vedevano nella guerra la possibilità della rivoluzione; i democratici sognavano l’abbattimento di tutte le frontiere, la fine di regimi autoritari e un dialogo fraterno fra i popoli.

Nessuno riusciva ad immaginare - l’immaginazione umana è assai debole, e incapace di pensare una realtà diversa da quella del momento - che la guerra potesse essere così tremenda, specialmente per le truppe al fronte, e avere una tale durata.

La strage fu, a parte ogni altra considerazione, veramente “inutile”, come la definì Benedetto XV, perché alla fine di quella carneficina i problemi che l’avevano scatenata rimasero irrisolti e ancora più acuti. I massacri di Verdun, del Carso, di Leopoli (“tomba di popoli”) lasciarono un’Europa devastata e avvelenata dai vecchi problemi - i confini, le nazionalità, il nuovo ruolo delle masse, i conflitti sociali - ancora più gravi. In quel nuovo Eden in cui avrebbe . dovuto vivere felice e buono il nuovo Adamo vennero a regnare e a incrudelire Mussolini, Hitler, Stalin e altri despoti in altri paesi; sulle rovine degli imperi nacquero regimi totalitari, liberticidi e assassini. La fine della prima guerra mondiale creò un’Europa inevitabilmente avviata a una seconda guerra mondiale o meglio a un secondo tempo dell’unica guerra mondiale, che ha visto pure un terzo tempo (per nostra egoistica fortuna giocato in terre lontane da noi) con la guerra fredda, 45 milioni di morti fra il 1945 e il 1989. Può darsi si profili o sia già in atto un quarto tempo, già serpeggiante, anch’esso sottratto alla miopia della intelligenza umana e soprattutto politica. La guerra in Afghanistan sta già durando due volte e mezzo la seconda guerra mondiale e non può essere nè vinta nè persa ossia forse non può finire e questo è solo un esempio.

Naturalmente anche la guerra conosce e forse contribuisce a creare valori umani: la lealtà, la fedeltà, il coraggio, la solidarietà verso il compagno in difficoltà anche a prezzo del pericolo e talora l’umana solidarietà pure nei confronti del nemico, almeno quando il nemico ha il volto preciso di un individuo in difficoltà e minacciato dalla morte. La poesia nata dal dolore della guerra è una poesia umanissima, che spesso tocca le corde più universali dell’umano. Si pensi - ma sono soltanto pochi esempi fra molti - a Ungaretti, alla Buffa di Camber Barni che ha espresso il nesso profondo e struggente, epico, malinconico e sanguigno, tra la guerra e la vita; si pensi alle grandissime e fosche poesie di Trakl; a tanti romanzi come quello famoso di Remarque o a tanti film come La grande illusione di Renoir, anch’essa pervasa dal doloroso sentimento della ineluttabilità della guerra e del suo legame indissolubile ancorché doloroso con la vita, sentimento presente soprattutto nei ceti popolari e contadini, in quell’umanità abituata a sentir passare sopra di sè il vento della storia accettata come si accetta la pioggia o l’inverno. Sono questi uomini i veri protagonisti della guerra, vittime ed eroi oscuri, non certo i marescialli che li mandavano a morire senza nemmeno conoscere la cosiddetta arte della guerra, come il nostro Cadorna, al quale è piuttosto inopportuno che sia dedicata una via di Trieste.

C’è una grande letteratura di testimonianza, di diari di guerra, che ha dimostrato come anche nell’inferno possa sopravvivere la nobiltà dell’uomo. Libri come il terribile Un anno sull’altipiano di Lussu, forse il più forte, il più grande nella sua spietata ancorché fraterna denuncia; libri come Guerra del ’15 di Stuparich o come quelli di Gadda e di altri. Le testimonianze più preziose sono quelle dei patrioti antinazionalisti, capaci di vedere l’umanità nel nemico, come ad esempio in quello straordinario episodio in cui una compagnia (o altra piccola unità militare, non ricordo esattamente) guidata dal nostro Guido Devescovi, l’amico di Slataper e il germanista che per primo scrisse sul Doktor Faustus di Thomas Mann, conquistò una postazione austriaca a cento metri di distanza - cento metri la cui conquista, perdita e riconquista era costata la distruzione quasi totale della compagnia italiana, arrivata a quella quota in cinque o sei uomini, e la distruzione totale della compagnia austriaca, ridotta a uno solo, un tenente o sottotenente che i soldati, imbestialiti dal macello, stavano probabilmente per uccidere e che Devescovi dovette fermare puntando contro di loro la sua pistola. E così, da quelle rocce e da quelle feritoie insanguinate potè nascere un fiore di amicizia, come quella tra Devescovi e l’ufficiale austriaco.

Fra i caduti per Trieste italiana c’è anche mio zio Galileo, morto a 18 anni volontario sul Carso, mentre un altro zio più anziano, Virgilio, ha fatto la Grande guerra da regolare ufficiale degli Alpini, perché mio nonno Sebastiano, venuto a Trieste dal Friuli, non aveva mai voluto abbandonare la cittadinanza italiana. E così nel ’15 la famiglia si era trasferita a Pistoia.

Altro esempio di nobiltà è stato offerto da alcuni, specialmente intellettuali, italiani profondamente contrari all’entrata in guerra dell’Italia e anche, in certi casi, attivi nel cercare di influire in tal senso sull’opinione pubblica e sulla politica ma che, quando l’Italia entrò in guerra, ai loro occhi sciaguratamente, sentirono - come il grande filologo Cesare De Lollis, ma è solo un esempio fra i tanti - il dovere di arruolarsi volontariamente, di condividere, nel bene e nel male, il destino della loro patria.

Dalla guerra nacque certo il fascismo, ma anche il fiore di un antifascismo resistente. Un solo esempio fra i molti: Ercole Miani, eroico volontario e poi con D’Annunzio a Fiume, il quale a Trieste fu a capo della resistenza democratica e orribilmente torturato dalle belve della banda Collotti, provvidenzialmente fucilate poco dopo, non si lasciò scappare una parola e non menò mai vanto del suo autentico eroismo.

La guerra ha prodotto anche fiumi di esaltazione feroce e sconsiderata, una letteratura esaltata dalla violenza. Forse il vertice della bestiale e imbecille disumanità è stato raggiunto da una pagina di Giovanni Papini il quale (senza peraltro aver combattuto, a differenza di molti suoi amici) si compiaceva del sangue delle plebi ossia dei soldati che, così scriveva, concimavano e rendevano fertile la terra e, toccando l’apice della volgarità e dell’inumanità, aggiungeva che non gli importava che gli venissero a dire che le madri di tutti quei caduti sconosciuti avevano pianto e piangevano, perchè «non piansero quando si incinsero». Rimproverare a una madre che piange la morte del figlio il fatto di non aver pianto mentre lo concepiva è una bestialità che ha pochi confronti.

Anche l’amore di patria è un profondo valore, specie se lo si intende come Mazzini inserito nell’amore più vasto per un coro più grande di patrie, legate da valori comuni e sentimenti fraterni. È giusto commuoversi sentendo cantare “cimitero di noi soldati/ forse un giorno ti vengo a trovare” o anche “Lili Marlene”, cantata soprattutto, contrariamente a quello che si crede, nella prima guerra mondiale. C’è qualcosa di grande nei sogni dei diversi irredentismi, illusi di poter convivere fraternamente. C’è anche qualcosa di grande nella disponibilità di molti patrioti a morire, come ricorda in una splendida pagina Elody Oblath Stuparich, l’amica di Slataper e poi moglie di Giani Stuparich; lei stessa però, in questo splendido ricordo che dice tutta l’umanità di quella generazione, dice che erano pronti non solo a morire, ma anche alla morte di milioni di uomini, pur senza rendersene conto.

Forse ogni sogno di costruire un nuovo Paradiso, un Eden in cui un nuovo Adamo possa passare la vita a passeggiare liberamente e fraternamente, è pericoloso e finisce per richiedere ecatombi. Forse è meglio accontentarsi di migliorare un po’ il mondo, nella misura modesta e concreta delle proprie possibilità, senza lasciarsi intimidire dalle enormi difficoltà che si creano subito dinanzi a qualsiasi progetto anche minimo di rendere migliori cose, di rendere più umano il mondo. Forse c’è più grande differenza tra i patrioti all’interno di uno stesso campo che fra quelli di un campo e quelli di un altro. C’è più differenza fra i patrioti italiani, anche soprattutto delle nostre parti, che sognavano un’armonia fraterna tra la cultura italiana e quella slava, come Tommaseo, uno dei padri del nostro Risorgimento, che si firmava un “italo-slavo”, e quelli che sognavano il dominio e la repressione del vicino, che non fra un patriota italiano democratico e uno slavo democratico, e ciò vale ovviamente per ogni campo.

Ciò che continua a stupirmi sempre di più è la mancanza di immaginazione. Riesce difficile capire oggi come si potesse pensare che quella guerra potesse essere simile a quelle del passato, già di per sè sciagurate, senza neanche ipotizzare le proporzioni del macello che si stava preparando. Capisco di più, anche se in aperto dissenso, coloro che, come ad esempio Ernst Jünger, hanno visto nella guerra un elemento formativo dell’uomo e hanno continuato a vederlo anche quando la realtà si è fatta di un’immane brutalità, che non quelli che sono andati in guerra allegramente, pensando che in qualche modo potesse essere pure una “bella guerra” e poi, dinanzi al massacro all’ingrosso di Verdun si sono scandalizzati, inorriditi. È proprio necessario fare esperienza di certi mali per poter capire che sono un male? La mia età mi ha risparmiato dall’essere coinvolto in conflitti armati e non ho mai provato concretamente cosa voglia dire ficcare una baionetta nella pancia di un altro o ricevere nella propria pancia la baionetta di un altro. Ma credo di sapere che si tratti di una cosa orribile e sarebbe strano se immaginassi uno scontro alla baionetta come qualcosa di esaltante, salvo poi scandalizzarmi o peggio quando me ne trovassi coinvolto. Viene in mente quella storia raccontata da Giorgio Voghera: la storia di un ebreo galiziano, cittadino dell’impero austroungarico, richiamato alle armi, che si sottopone a tutto l’addestramento pur restando profondamento avverso a ogni guerra, impara - sempre controvoglia e con i sentimenti più pacifisti del mondo - a sparare o a gettare le bombe a mano, finché, giudicato addestrato in modo sufficiente, viene mandato al fronte, sempre controvoglia e con sentimenti antimilitaristi. Una notte - siamo sul fronte orientale - arriva l’ordine di attaccare le trincee russe situate di fronte. Di malavoglia e sempre contrario, lui obbedisce, esce dalla sua trincea, striscia come gli viene detto sul prato con il suo fucile in mano e puntato nella direzione giusta, finché a un certo punto i russi mandano alcuni razzi che illuminano la zona e cominciano a sparare sugli austriaci che sono in procinto di attaccare. A questo punto, l’ebreo galiziano si alza e grida, sdegnato: «Ehi, siete pazzi? c’è gente qui!» e cade colpito alla fronte.

Inutile strage, ma anche suicidio d’Europa. Sino alla grande guerra, l’Europa era stato il centro del potere del mondo, nel bene e nel male; con quel conflitto mondiale, il suo impero è finito e altre potenze hanno cominciato a contendersi il dominio del mondo in una lotta non certo ancora conclusa. Lo sfascio dell’Europa ha permesso a tanti popoli extraeuropei sino allora sfruttati e oppressi di liberarsi e di iniziare un cammino, certo tuttora contraddittorio, verso la propria libertà e autonomia.

La prima guerra mondiale quale male necessario per il progresso complessivo dell’umanità? È difficile dire, specie dinanzi all’altissimo prezzo di sangue pagato.

I nemici, per ognuno dei paesi e dei popoli in guerra, erano pure all’interno di ogni schieramento. Quando fu assassinato a Sarajevo Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero austroungarico, in molti reggimenti ungheresi si brindò gioiosamente alla sua morte. Quando nel maggio 1915 l’Italia entrò in guerra, non molti si accorsero che quella vittoria della piazza sul Parlamento era l’inizio della fine della democrazia, alla cui agonia quasi estrema stiamo forse assistendo.

Ogni guerra è una mina fra le mani di chi si dispone a gettarla. Lo sapeva bene Giovanni Paolo II, che non era un ingenuo pacifista, ma piuttosto, sotto molti aspetti, un rude conservatore, quando si è genialmente ancorchè vanamente opposto alla guerra contro l’Islam. Piuttosto vi sono momenti e situazioni in cui può essere inevitabile, necessario e doveroso fare la guerra - come ad esempio dinanzi all’espansione omicida della Germania nazista (la quale peraltro non sarebbe esistita senza la prima guerra mondiale e le inique condizioni del trattato di Versailles). Quando le democrazie occidentali cedettero ignominiosamente a Hitler nel 1938, Churchill disse: «Le democrazie potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore. Non per questo eviteranno la guerra».

Nel 1914 è stato un disonore scatenarla, la guerra, ed è stata un’imbecillità illudersi di poterla controllare e di potersene servire.

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