Il Tlt invoca l’«incompatibilità» E il caso finisce in Cassazione

Non sarà, non ancora, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. E incarna, peraltro, la giustizia di uno Stato (l’Italia) che ripudiano. Ma, per gli attivisti pro-Tlt, è pur sempre qualcosa. Un salto di livello della battaglia, benché dovuto dal giudice in base alla legge (italiana). Il caso Tlt finisce infatti davanti alla Cassazione, chiamata adesso a esprimersi su un’inedita istanza di rimessione - «per incompatibilità ambientale» dei magistrati del distretto di Trieste, ad altra sede giudiziaria - concepita da Paolo G. Parovel e Roberto Giurastante, motori di quest’indipendentismo galoppante in città.
A mandarcelo - il caso Tlt davanti alla Corte suprema - è stato ieri il giudice Pietro Leanza, da poco subentrato al collega Paolo Vascotto, in occasione di un’udienza dell’annoso processo per presunta diffamazione (ai danni di Rosa Filippini, sia in proprio che per conto dell’assoziazione ambientalista Amici della Terra di cui è presidente nazionale) a carico proprio di Giurastante e Parovel. Una disposizione, quella del giudice, dalla discrezionalità limitatissima, figlia di «un atto dovuto previsto dal Codice di procedura penale», come è stato osservato tanto dall’avvocato Massimo Scrascia, domiciliatario del difensore di parte civile della Filippini, l’avvocato di Padova Dyana Minelle, quanto dall’avvocato Dario Lunder, il legale che ieri ha sostituito all’ultimo il collega isontino Livio Bernot, difensore storico degli indipendentisti. La “madre” della decisione assunta nell’occasione dal giudice Leanza - che differisce da quanto espresso in udienza dal pm Paola Peressini e dallo stesso Scrascia, da cui è stato chiesto invece che il processo potesse procedere senza la parentesi romana - dev’essere in realtà un cambio di strategia di Parovel e Giurastante. I quali, stavolta, non si sono limitati a portare, a processo, l’eccezione preliminare del cosiddetto «difetto di giurisdizione» per assenza di sovranità dell’Italia su ciò che fanno i triestini in base al Trattato di pace. L’hanno portata, certo, subordinandola però all’istanza di remissione «per incompatibilità» per la presunta «ostilità» della magistratura triestina, o per lo meno di parte di essa, avvertita da Trieste libera contro i suoi rappresentanti. Il che è un qualcosa che va oltre la richiesta di tenere meramente conto del Trattato di cui sopra.
Una strategia non dissimile dalle difese nel maxiprocesso per le morti d’amianto a Gorizia, che ha dilazionato i tempi del procedimento. Alla fine il giudice Leanza, Codice di procedura penale alla mano, aggiornando il processo al 4 dicembre si è rimesso alla Cassazione - che dovrà così stabilire se il processo resta a Trieste o se ne va altrove - alla quale il Tribunale di Foro Ulpiano trasmetterà «immediatamente» gli atti. Contestualmente, il giudice ha disposto un’ulteriore trasmissione di atti. Ma in questo caso «alla Procura di Bologna»: sono quelli della «denuncia penale per abuso d’ufficio e falso» annunciata e presentata sempre ieri in udienza da Parovel contro i giudici Raffaele Morvay, Giulia Spadaro e Monica Pacilio, componenti del collegio di magistrati che di recente ha rigettato il reclamo di un militante dell’Mtl riguardante una sostanziosa cartella di Equitalia a suo carico.
L’aula di ieri era la stessa in cui a luglio i discepoli di Giurastante erano entrati in massa - e usciti per così dire rumorosi - in occasione di un’udienza che vedeva allora l’ambientalista parte lesa per diffamazione. Ieri, invece, in Tribunale non è entrata più d’una decina di supporters. Silenziosi. Come silenziosi, rispetto all’altra volta, si sono mostrati quelli che hanno preso parte al sit-in all’esterno, valutati da fonti della Questura tra i 100 e i 150. Niente fischietti, niente tamburi. Solo striscioni e bandiere. Dallo stadio allo studio. Lo studio di nuove strategie. Uno dei pochi momenti di colore è stato quello che, poco prima di mezzogiorno, ha preceduto l’ingresso di Giurastante e Parovel a Palazzo di giustizia. Davanti al presidio s’è fermato un furgone col marchio di una nota casa italiana di latticini, e la targa slovena di Capodistria. L’autista ha tirato giù il finestrino e ha invitato la gente a rispondere al richiamo: «Trieste!». E gli altri assieme: «Libera!».
@PierRaub
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