LA CINA E I MERCATI GLOBALIZZATI

È di questi giorni la notizia che la Cina ha ulteriormente accresciuto il suo surplus commerciale che già nel 2006 aveva sfiorato il 10% del reddito nazionale, un record mondiale in tutte le epoche. Il Senato americano discute di interventi protettivi, mentre l'Unione europea spinge per una maggior severità in tema di contraffazioni. In breve crescono le preoccupazioni. Da un lato c'è chi teme per l'occupazione nei Paesi industrializzati ove un crescente numero di posti di lavoro viene ad essere trasferito all'estero, anche in ambiti - come quello dei servizi - in precedenza impossibili a trasferire. Da un altro lato vi è chi sottolinea che un surplus commerciale implica l'accumulazione di riserve che in un modo o nell'altro devono essere investite. Sino ad ora i titoli di Stato statunitensi avevano rappresentato per la Cina l'impiego quasi totalitario, avendo un duplice effetto.


E cioè sostenere il dollaro su livelli più elevati di quelli che la bilancia dei pagamenti americana avrebbe consentito e di dare un contributo non trascurabile alla grande liquidità che caratterizza i mercati finanziari tenendo bassi i tassi e disponibile il credito. Ora, per altro, la Cina ha appena appena iniziato a diversificare i suoi investimenti, non solo in termini di valute ma anche di qualità. Oltre a investire in Africa per le materie prime, comincia a comprare azioni e società, con gioia di chi vede possibilità di rialzi in borsa e allarme di chi teme sia la perdita di indipendenza, sia che la politica divenga un fattore dominante nelle decisioni strategiche delle imprese sotto controllo cinese. Al primo di questi timori è agevole controbattere che l'esperienza insegna come il ritorno al protezionismo sarebbe un passo verso la stagnazione. Per giunta i pericoli di un ritorno alla guerra fredda, ove l'Occidente scegliesse una strada del genere sono evidenti.


Per non dire che, passo dopo passo, non è facile prevedere lo sbocco. Molto più complessa è la questione degli investimenti. È chiaro che è difficile pensare che la Cina continui ad acquistare titoli americani solo perché è interessata ad evitare le perdite che, avendo riserve enormi, le procurerebbe una forte svalutazione del dollaro. Ma certo il gradualismo è nel suo,oltre nel nostro, interesse e questo dovrebbe tranquillizzare. Per gli investimenti in imprese prima che possano arrivare ad assumere il controllo di una quota rilevante chi sa quanti mutamenti avranno avuto luogo. Non si deve dimenticare che c'è stato un periodo in cui i giapponesi acquistarono un simbolo dell'America come lo Empire State Building e le preoccupazioni ed i timori di allora si sono mostrati del tutto infondati.


In un mondo aperto la nazionalità degli investitori non dovrebbe preoccupare,ma anche qui ci sono problemi di limiti e soprattutto di disomogeneità politica. Il problema vero è che il mondo si trova, per non parlare degli investimenti dei produttori di petrolio arabi di cui poco si conosce, con due profondi squilibri. Quello degli americani che, tra pubblici e privati, consumano più di quello che producono e quello dei cinesi che praticano esattamente il contrario. Basti pensare che in Cina i consumi delle famiglie rappresentano meno del 40% del reddito nazionale, il risparmio circa il 50% e il surplus con l'estero quel che resta. I risparmi delle famiglie non sono solo il prodotto di una tradizionale parsimonia, ma anche il risultato di pensioni assenti o miserevoli e di mancanza di un welfare che garantisca le spese sanitarie.


C'è, quindi, un vastissimo spettro di cose da modificare nella politica cinese,come in quella americana. Gli uni e gli altri dovrebbero muoversi verso una riduzione non solo degli squilibri economici, ma anche di quelli sociali. Non sono strade facili, ma sono le uniche che possono ridurre i pericoli di crisi per tutto il mondo, non solo per loro.

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