La Procura di Trieste indaga sulla morte del cuoco di Capriva

CAPRIVA. C’è “el Polo”, c’è “el Culelo”, e c’è “el Zorro”. Non sono gli eroi di una fiaba di cappa e spada in salsa latino-americana nati dalla fantasia di un romanziere. È il manipolo di una più ampia lista di protagonisti di una storia mostruosamente vera, calata nel “giro” dei piccoli boss della droga delle periferie messicane, che si è consumata nella primavera del 2013 a Mazunte, località affacciata sul Pacifico, nello Stato di Oaxaca, e che è costata la vita tra atroci sofferenze al cuoco caprivese-triestino di 28 anni Alex Bertoli, la cui colpa era stata quella di esserci finito, in quel “giro”. Forse non dentro fino al collo, magari ai margini, ma comunque quel tanto che è bastato a diventare un “nemico” da eliminare.
Una storia senza ancora un preciso colpevole, o dei precisi colpevoli, raccontata in un lungo fascicolo in cui la magistratura dello stesso Paese americano ha raccolto mesi di indagini portate avanti dalla polizia locale, e che ora si trova a Foro Ulpiano, e segnatamente tra le “carte” della Procura della Repubblica di Trieste. Vi è arrivato nelle settimane scorse e, dopo una prima serie di traduzioni certificate, peraltro ancora in corso, è diventato in questi giorni oggetto di indagine del pubblico ministero Federico Frezza. Il quale già lo scorso agosto - tre mesi dopo l’orrendo fatto di sangue oltreoceano, quando per inciso ricopriva l’incarico di procuratore capo facente funzioni, in attesa che arrivasse l’attuale procuratore capo effettivo Carlo Mastelloni - aveva firmato una rogatoria internazionale, indirizzata chiaramente ai colleghi magistrati messicani, in cui la Procura triestina aveva chiesto la possibilità di acquisire gli atti dell’inchiesta sulla morte del triestino Bertoli. Rogatoria andata a buon fine, pur con i suoi tempi: gli incartamenti sono stati trasferiti in Italia nel periodo di Pasqua e, da allora, sono state avviate le procedure di “lettura”. A cominciare dalle traduzioni per proseguire poi con gli approfondimenti degli inquirenti di casa nostra, che tra parentesi si occupano anche del monitoraggio di grandi traffici internazionali di droga passati per di qua, i cui “poteri” d’intervento, nella fattispecie risultano vincolati a determinate condizioni che non è detto si verifichino, tra le altre cose, ad esempio, la scoperta che l’assassino o gli assassini sono a loro volta italiani.
È pure una risposta implicita, questa, all’urlo di dolore che poco più d’un mese fa, nei giorni in cui ricorreva il primo anniversario della morte di suo figlio, aveva lanciato dalla Germania, il Paese in cui oggi vive, Loredana Siriani Bertoli, la mamma di Alex, che aveva lamentato un certo immobilismo da parte delle autorità italiane, in primis l’Ambasciata a Città del Messico, nella difficile ricerca della verità sull’esecuzione avvenuta in quei primi giorni di maggio del 2013. Il corpo del cuoco 28enne venuto in America dall’Italia, o meglio ciò che di lui era rimasto, era stato trovato steso su un materasso su una spiaggia di Mazunte, non troppo distante da Puerto Escondido, il teatro di una nota pellicola di Salvatores. Ma in questo caso, per l’appunto, non si trattava di fiction. Era la realtà, una realtà sconvolgente. Bertoli era stato seviziato, preso a colpi di badile, e infine dato alle fiamme, quando probabilmente era ancora vivo.
Il fascicolo inviato dagli inquirenti messicani alla Procura di Trieste non identifica gli esecutori materiali del barbaro omicidio. Descrive tuttavia - e minuziosamente - un “mondo” fatto, come detto, di relazioni pericolose. (p.r.)
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