L’avvocato Adly: «Attendiamo verità, da egiziano chiedo scusa»

TRIESTE. «Purtroppo sono tante le famiglie egiziane che attendono di sapere la verità sui loro figli, fratelli o mariti rapiti e uccisi da sconosciuti». Si percepisce un senso di frustrazione nella voce di Malek Adly, avvocato egiziano impegnato in una continua lotta nella difesa dei diritti umani del suo paese, nel momento in cui si trova a inserire la vicenda della morte di Giulio Regeni nel contesto dell'Egitto odierno. Da subito, dai giorni in cui Regeni era "soltanto" scomparso, la storia è entrata nei radar di Adly.
Si è occupato del caso, come volontario, nelle prime ore dopo la scomparsa di Giulio, avvenuta fra le 19 e le 20 del 25 gennaio. Quando non si è presentato all’appuntamento che aveva alle 20 a Bab el Louq nel centro del Cairo, alcuni amici hanno contattato Adly chiedendogli aiuto. Il giovane è scomparso nel quartiere di Dokki, dove era andato a prendere la metro: il primo passo è stato contattare le stazioni di polizia della zona. Già il 25 sera «siamo andati nelle stazioni di polizia di Abdeen, Dokki e Qasr al Nil, ma non siamo riusciti ad avere notizie» di Giulio, spiega Adly. A quel punto è stata allertata l’ambasciata italiana, che ha poi avviato le sue procedure.
Ieri l'avvocato ha preso atto della morte del giovane italiano pubblicando sul web una dichiarazione significativa: «Le mie condoglianze a tutti gli amici italiani e alla famiglia di Giulio, come cittadino egiziano io chiedo scusa a tutte le vittime di questa folle situazione - scrive -. Come legale sono pronto a dare una mano in ogni azione legale necessaria a raggiungere la verità sulla morte di Giulio e sui bastardi che hanno compiuto quest'atto». Secondo Adly l'avvicendarsi di versioni contrastanti da parte delle forze di polizia egiziane è un fenomeno tipico: «È dovuto all'atteggiamento delle nostre autorità, ogni volta che si verifica un caso del genere loro iniziano a mentire e a discolparsi. In questo caso l'opinione pubblica li ha visti come uno dei possibili autori, ma finora non abbiamo informazioni certe su quanto avvenuto». In quanto avvocato, aggiunge, «ho il dovere di attendere il rapporto dell'autopsia e i risultati delle indagini». Ma quanto avvenuto potrebbe davvero avere dei legami con la situazione politica egiziana? Adly risponde che «tutto quello che avviene oggigiorno in Egitto è legato al momento politico in corso. Ciò vale in primis per l'atteggiamento delle forze di sicurezza».
L'avvocato descrive un quadro sconfortante dei diritti umani nel suo paese, «la situazione è orribile da questo punto di vista»: una realtà in cui le forze dell'ordine sono spesso fattore di insicurezza per il cittadino. E ciò le rende tanto più pericolose, poiché godono di protezione da parte del sistema giudiziario. Alla fin fine, spiega, il paese che oggi è governato da una giunta militare non è poi molto diverso da quello antecedente alla rivoluzione di piazza Tahrir: «Non direi che per il cittadino ci sia oggi una grande differenza rispetto ai tempi di Mubarak».
Se gli si chiede quante possibilità ci sono di arrivare alla verità sulla morte di Regeni, l'avvocato risponde che è la stessa cosa che si chiedono le famiglie dei tanti, troppi "desaparecidos" egiziani. D'altra parte basta consultare i siti delle più importanti organizzazioni per la difesa dei diritti umani per afferrare la gravità di quanto sta avvenendo. Recita il portale di Human Rights Watch: «Il presidente Abdel Fattah al-Sisi, in carica dal giugno 2014, guida un paese che rimane in preda a una crisi dei diritti umani. Le autorità hanno di fatto proibito le proteste, imprigionato decine di migliaia di persone - spesso dopo processi iniqui - e messo fuori legge il più ampio gruppo d'opposizione del paese, la Fratellanza musulmana».
Il passaggio successivo è rivelatore: «Una legge antiterrorismo indiscriminata ha esteso i poteri delle autorità. Gli ufficiali della Sicurezza nazionale compiono torture ed effettuano sparizioni, molti detenuti sono morti durante la custodia a causa dei maltrattamenti». Il governo, conclude l'organizzazione, «continua a indagare Ong indipendenti e a mettere giornalisti sotto processo». Giornalisti come Giulio che, sotto pseudonimo, scriveva per Il Manifesto cronache sul paese in cui era andato a studiare.
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