L’ENIGMA DELLO SCALONE

Che non fosse giustificato l'ottimismo lo si è capito anche troppo presto. Eppure, nei giorni scorsi, dopo che il governo aveva messo sul tavolo del negoziato in materia di pensioni più della metà del tesoretto (1,3 miliardi di euro per migliorare i trattamenti più bassi e 600 milioni per rafforzare, con più robuste dosi di contribuzione figurativa, le posizioni previdenziali dei lavoratori precari) erano cominciate a circolare voci, ipotesi e soluzioni che indicavano come prossima anche l'intesa sulla spalmatura dello scalone ovvero sull'individuazione di un percorso di maggiore gradualità per raggiungere gli obiettivi stabiliti dalla riforma del 2004 (un requisito anagrafico a regime pari a 62 anni per i dipendenti e a 63 anni per gli autonomi da combinare con un'anzianità contributiva di 35 anni). Ci s'interrogava soltanto se, al posto di 60 anni nel 2008, si sarebbe partiti da 58 o da 59 anni.


Tanto che la Ragioneria generale dello Stato, a poche ore dall'avvio del negoziato, si è persino premurata di far circolare delle stime riguardanti la copertura finanziaria che sarebbe stato necessario fornire nell'una e nell'altra ipotesi.


La differenza è sostanziale. Se si riducesse lo scalone fino ad una soglia di 58 anni, il fabbisogno da coprire sarebbe nel complesso (considerando un arco temporale compreso tra il 2008 e il 2016) pari a oltre 9 miliardi. Se si partisse invece da 59 anni basterebbero 2,5 miliardi. Verrebbe da chiedersi, dunque, se non sarebbe più conveniente lasciare immutate le cose e incamerare nel periodo considerato - sono sempre dati della Ragioneria - ben 65 miliardi di minore spesa pensionistica assicurati dal permanere dello scalone e dell'ulteriore incremento successivo.


Anche perché le vittime non sarebbero tante come si potrebbe ritenere sulla scorta di un clamore che dura fastidiosamente e sterilmente da mesi.

Sempre nei giorni scorsi sono stati resi noti dei dati dell'Inps riguardanti il numero dei lavoratori dipendenti e autonomi che risulterebbero bloccati nel 2008 se non fosse modificata la legge Maroni. Si tratterebbe di una minoranza di lavoratori, importante ma esigua. Sarebbero 129.500 le persone che nel corso del 2008 finirebbero nella trappola dell'innalzamento del requisito minimo di età; di essi, 43mila apparterrebbero alle gestioni dei lavoratori autonomi, le cui sorti non angustiano certamente l'alleanza tra il Prc e i sindacati (visto che non si avvertono neppure lamentele da parte delle loro associazioni di categoria).


Quanto agli 86.500 dipendenti privati, sarebbero soltanto 25mila coloro che subirebbero una proroga forzata di 4 anni (comprensivi dell'apertura della finestra di accesso alla pensione), mentre per 24mila l'attesa durerebbe un solo anno, per 25mila due, per 12.500 tre.

Naturalmente ai casi Inps andrebbero aggiunti, nel numero di qualche migliaia, i dipendenti pubblici, la cui condizione di lavoro - si ammetterà - renderebbe comunque meno gravoso il sacrificio di qualche anno di lavoro in più. Ammesso e non concesso, allora, che si raggiunga un accordo per spalmare, nel modo meno oneroso, lo scalone, come e dove si troverebbero le coperture?


Le ipotesi all'esame evocano nuovamente delle nuove stangate contributive, in aggiunta a quelle - oltremodo pesanti - già contenute nella Finanziaria 2007, che hanno prodotto incrementi di gettito per 5 miliardi di euro. Si parla di un ulteriore incremento dello 0,30% (questa volta a carico dei datori) per il lavoro dipendente e di altri 4 punti per il lavoro parasubordinato. Misure siffatte dovrebbero essere evitate con cura proprio adesso che i dati sull'occupazione confermano un trend positivo, che è stupido voler negare per meri motivi ideologici.


Avere un tasso di disoccupazione del 6,4% su scala nazionale significa che, in un Paese in cui il mercato del lavoro è caratterizzato da un forte dualismo, in molte aree centro-settentrionali siamo già oltre una condizione di pieno impiego. Bisogna fare molta attenzione a non gettare il bambino con l'acqua sporca, quando si parla di rivedere alcune leggi, come quella che porta il nome di Marco Biagi.


E' vero: esistono sacche di precariato difficili da svuotare. Ma la realtà è meno peggiore di quella che viene rappresentata dalla propaganda. Persino l'Ires-Cgil, a commento di una recente indagine, ammette che del campione, pari al 74%, ha un «rapporto di lavoro standard». Interessante è notare la ripartizione dei lavoratori con «rapporto non standard»: si tratta nel 12,1% dei casi di contratti a termine o stagionali; nel 5,2% di co.co.co., co.co.pro., partite Iva. Il 2% è costituito da lavoratori interinali e da contrattisti di somministrazione; circa l'1,8% è privo di contratto, mentre il restante 4,3% si suddivide tra apprendisti, contratti di formazione e lavoro, lavoratori in inserimento, collaboratori occasionali, soci lavoratori di cooperative, lavoranti a domicilio.


La composizione del mercato del lavoro, che emerge dall'indagine Ires, presenta, dunque, caratteristiche fisiologiche, se solo si tiene conto del fatto che il lavoro stagionale (e quindi il ricorso ai contratti a termine) è in larga misura un'attività peculiare dell'organizzazione del lavoro di specifici settori di attività (agricoltura, turismo, costruzioni, ecc.).

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