L’EUROPA UNITA? AVANTI ADAGIO
Le decisioni prese alcuni giorni fa al vertice europeo di Bruxelles si possono giudicare, come tutte le soluzioni di compromesso laboriosamente raggiunte, da due punti di vista. Si può dire: il bicchiere è mezzo pieno o al contrario il bicchiere è mezzo vuoto. Sono entrambi giudizi legittimi. Quello che invece è sbagliato è considerarle come un tradimento dello "spirito europeo". Uno spirito europeo, cioè una tensione verso qualche obiettivo ultimo, è stato sì patrimonio della retorica europeista ma di per sé non ha mai portato alcun contributo al processo di integrazione europea. Questo infatti si è sempre costruito mirando al sodo, a obiettivi concreti, raggiunti i quali si è pensato di andare un po' più avanti, ma il più delle volte a piccole tappe. Così si è partiti nel 1951 dalla libera circolazione del carbone e dell'acciaio nella prima istituzione comunitaria a sei componenti e si è arrivati quasi cinquant'anni dopo a un passo assai cospicuo e ad assai più ampio raggio, l'euro.
Quanto all'altro problema se, dopo le decisioni di Bruxelles, il bicchiere sia oggi mezzo pieno o mezzo vuoto, tenderei a propendere per la prima ipotesi. Quanto conta prima di tutto è il fatto che si è riuscito ad estendere il principio del voto ponderato ad altre materie di competenza proprie del Consiglio d'Europa, rispetto a quelle stabilite sette anni fa a Nizza. Questo principio non è certamente un toccasana, ma è sicuramente più funzionale rispetto a quello precedente, cioè il principio dell'unanimità (che si può leggere alla rovescia anche come diritto di veto), un principio che condanna in pratica alla paralisi le istituzioni che lo adottano (al riguardo viene subito alla mente il caso dell'Onu). Certo, la decisione sarà attiva appena col 2014 ma, come si sa, l'Unione Europea non ha mai avuto fretta. Cosa possiamo farci? I sostenitori della tesi del bicchiere mezzo vuoto hanno basato il proprio giudizio sul lato economico e della politica estera.
Ma l'hanno fatto per scelta aprioristica ignorando cioè qual è la realtà che abbiamo oggi di fronte in Europa. Questa realtà si chiama potere degli stati nazionali. Declassare il principio del mercato libero è semplicemente non riconoscere questa realtà. I francesi e i tedeschi, tanto per citare uno dei possibili esempi, hanno sempre preteso di difendere i propri produttori agricoli e pretendono di continuare a farlo (oggi fra l'altro con loro si allineano i polacchi, il cui comparto agricolo è numericamente e socialmente rilevante). Al riguardo c'è assai poco di nuovo nell'atteggiamento del neo-presidente francese Sarkozy. Nei primi anni sessanta un suo illustre predecessore, il generale De Gaulle, paralizzò per un bel po' le istituzioni europee -venne definita la crisi della sedia vuota- per via della politica agricola comune che non lo soddisfaceva. Noi italiani non abbiamo fatto altrettanto.
Non perché inseguivamo più nobili obiettivi ma per semplice insipienza: lo sta a dimostrare ieri la vicenda delle quote latte e oggi quella del Tocai o il fatto che fuori d'Italia è lecito produrre anche il Parmesan cheese. Vi vedete i francesi accettare che sia produca fuori di Francia il Camembert cheese o il Rebuchon cheese? Se volgiamo poi lo sguardo a quelle che si chiamano le politiche industriali degli stati, vediamo che c'è una quantità di aiuto pubblico all'impresa pressoché in tutti gli stati. In Italia, ad esempio, sono tutti felici, quando, per dir così, ci si organizza per mantenere l'italianità di un'impresa. Per riferirsi poi alle cose di casa nostra, alcuni giorni fa la giunta regionale ha elargito un tot di milioni di euro a imprese impegnate nell'innovazione tecnologica. Tutti felici anche in questo caso.
Ma, scusate, questo non si chiama aiuto pubblico all'impresa? E col libero mercato cosa c'entra? Quanto poi alle decisioni in fatto di politica estera comune -l'altro tema sul quale i critici hanno diretto i loro strali- dal recente vertice è uscito un mero cambio di etichetta. Ma anche questa decisione riflette una realtà di fatto, che mi pare nessun paese membro dell'Ue ha intenzione di contestare. Sappiamo bene il perché: gli stati europei sono gelosi ognuno della propria politica estera, e il problema principale per tutti non è posizionarla rispetto all'Europa. E' invece, com'è avvenuto ininterrottamente dal 1945 in avanti, posizionarla rispetto agli Stati Uniti: in termini che come due estremi possono avere la collaborazione o l'antagonismo. Gli interessi e i poteri degli stati nazionali, di cui si è detto, il più delle volte non sono entrati in conflitto con il processo di integrazione europea.
Questo è uno strano processo infatti. Gli stati nazionali hanno sì ceduto quote progressivamente più ampie del loro potere alle istituzioni comunitarie (il fatto di maggior peso è l'euro), ma mantengono ancora cospicui poteri nelle loro mani. La nostra Italietta non è diversa dagli altri al riguardo: ogni volta che il governo in carica vara un Dpef, cioè il documento che stabilisce le linee di fondo del bilancio statale, vediamo che i poteri dello stato ci sono, eccome. Quando ci incazziamo per qualcosa che ci viene tolto o che non ci viene dato come dovrebbe esserci dato, il più delle volte ce la prendiamo non con l'UE ma con lo stato. Chi, anche da alti pulpiti di casa nostra, alcuni anni fa parlava di scomparsa dello stato nazionale ha letto male la storia. Gli stati nazionali non sono affatto un retaggio del passato; al contrario continuano a essere vivi e vegeti, e penso che soprattutto quelli di più recente ingresso nell'Unione abbiano tutta la voglia di rimanere tali.
Riproduzione riservata © Il Piccolo
Leggi anche
Video








