Pronto soccorso, girone infernale dei pazienti in attesa

«Se va bene sono almeno 5 ore di attesa. Ma dovrà ritornare qui a Cattinara anche domattina perché l’ortopedico di sera e di notte non lavora». Sono state queste le prime parole che una signora caduta per strada, e con la spalla che poi sarebbe risultata fratturata, si è sentita dire da una gentile infermiera incaricata dall’Azienda ospedaliera di accogliere al Pronto soccorso chi aveva necessità di cure urgenti. L’infermiera prima dell’annuncio sui tempi di attesa aveva misurato la pressione e chiesto numerose informazioni sullo stato di salute, sull’eventuale dipendenza da farmaci, sulle modalità della caduta alla paziente, alla quale subito dopo era stato fissato al polso un braccialetto di plastica bianca. Una sorta di marker, un segno dell’avvenuto “censimento” collegato a un’immediata limitazione della libertà. «Se rientro a casa - abito qui vicino, a meno di cinque minuti di distanza - e ritorno fra quattro ore, cosa accade? Posso?», aveva detto la paziente. Un categorico “no” aveva tagliato ogni obiezione tesa a evitare ore e ore di attesa su sediole tutt’altro che comode, accanto a decine di persone spaventate e arrabbiate e a famigliari e amici che si aggirano tra lettighe su cui sono distesi anziani e giovani in attesa di cure, tra porte automatiche che si aprono e chiudono, tra rassegnazione speranza e rabbia.
«Sono qui in attesa da 4 ore», afferma rassegnato il conducente di un furgoncino speronato in Slovenia da un Tir. «Mia suocera è in attesa sulla lettiga dalle 8 di stamattina, ha un versamento al ginocchio e non capisco perché la fanno ancora attendere», sibila tra i denti un investigatore della polizia. Sono le 20. Arriva un’ambulanza, esce assieme alle divise color arancione un uomo di mezza età che respira a fatica da una maschera a ossigeno. La lettiga si muove seguita dagli occhi delle decine di pazienti in attesa nel grande stanzone d’aspetto che assomiglia tanto a quelli delle stazioni degli anni Settanta. Sedili affiancati, plastica, metallo, poco spazio, nessun comfort e poche informazioni. Anzi nessuna. Si attende e basta perché i tempi in cui il medico vedrà il paziente e lo visiterà per la prima volta non sono prevedibili. Le vittime di incidenti stradali gravi hanno la precedenza così come gli infartuati. I tempi di attesa vengono infatti stabiliti dai codici di accesso. Se hai una spalla o una mano rotta, o un versamento al ginocchio non sei in pericolo di vita e devi attendere, attendere, attendere anche se stai male e soffri e non sai la gravità del dolore che ti affligge.
Non esistono alternative o scappatoie a queste scelte dell’Azienda. Il numero di medici in servizio è esiguo, le regole sono ferree, non puoi rivolgerti all’assistenza privata perché le cliniche triestine non hanno organizzato – finora - un servizio di pronto soccorso. Occorre aspettare in quegli stanzoni, su sedie scomode, senza un minimo di confort, con servizi igienici ridotti nel loro numero all’osso, senza la possibilità di trovare a distanza ragionevole una macchinina del caffè, una bottiglia di acqua minerale perché il bar dell’ospedale è lontanissimo e chiuso con gli orari di tutti gli uffici: dalle 19–19.30 porte sbarrate fino al successivo mattino.
La pressione esercitata su questa struttura è enorme. Arrivano ragazzi e ragazze finiti a terra col motorino. Mamme e papà tengono in mano i caschi. Arrivano operai infortunati. Seguiti da compagni di lavoro. Sono albanesi e fanno gruppo a sé: in altri termini non partecipano al brusio della gente che invoca efficienza, rapidità, informazioni, tempi certi. «Perché devo attendere ormai da quattro ore che il medico mi mandi a fare le radiografie? Già l’infermiera ha capito che la mia spalla è rotta». Arrivano anziani da qualche casa di riposo. «Ce li mandano qui al Pronto soccorso al minimo problema perché i medici di queste strutture non sono sempre disponibili. E i tempi si allungano. Ecco una delle cause di questo affollamento», afferma l’infermiere che accompagna una paziente alla sala raggi. Dal momento della sua entrata al Pronto soccorso sono trascorse sei ore. Dal primo incontro col medico cinque e mezza. L’infermiera all’accettazione era stata ottimista. Mezzanotte è passata da un pezzo. Qualcuno si è addormentato, altri hanno gli occhi rossi. Uno se ne va, si strappa dal polso il braccialetto di plastica: «Andrò dal mio medico, spero che non sia cosa grave».
In effetti oltre ad accogliere in modo adeguato chi è in una situazione critica, sembra che il Pronto soccorso stia attuando anche una strisciante politica di dissuasione dall’accesso all’ospedale. Le estenuanti ore di attesa restano impresse nella memoria come un’esperienza negativa: le sale di attesa inospitali, la mancanza di ogni comfort, i tempi aleatori, la carenza nel numero dei medici in servizio, le procedure burocratico-amministrative macchinose non vengono scalfite dall’impegno di chi lavora in questa prima linea, in questa trincea della sanità pubblica in cui i cittadini capiscono come si scivola facilmente nel ruolo di sudditi.
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