Ritorno in via Rossetti nella villa dove nonno inventò i sondaggi Doxa

Trieste, estate 2011. In via Rossetti, la case dei miei nonni, appena lasciata vuota – per sempre – da mia madre. Nel silenzio spettrale guardo la tavola da pranzo dove hanno mangiato generazioni di parenti e nipoti affamati. Il camino annerito, focolare di tanti Natali a famiglia riunita con abeti lunghi fino al soffitto, verze napofrik con quell’odore pregnante di verza e calamari e poesie ironiche per tutti. I quadri con gli antenati, sempre lì da generazioni, lo stesso sguardo austero da parsimoniosi marinai, negli occhi vivi sembra ancora stampato l’antico decalogo dei lussignani: manifesto ante litteram di una società contro lo spreco («nel vestir e nel magnar l’utile ma non el superfluo… i fioi devi finir quel che se meti nei piati… studar le luci in premura»), sempre applicato alla lettera.
Un totale silenzio rotto dall’eco lontano dei passi, lunghi e veloci, di nonno Piero, “borghese mitteleuropeo” scomparso – forse non a caso – poco prima della caduta del muro di Berlino. Più di vent’anni fa, la storia che cambia, un mondo diverso. Ma la rampa di scala di pietra irregolare che porta al prato, che il nonno saliva con sicuro passo da alpino, è ancora lì.
È vivo il ricordo del camminargli accanto avanti e indietro sull’erba rada, a parlare di studio, scuola, università, servizio militare … Problemi insormontabili ma smontabili e superabili, sempre, con poche sagge parole. Un insolito regalo ricevuto per i suoi 85 anni: gli sci da fondo (“fanne buon uso, io non penso di usarli più…”). L’abete allora così piccolo, adesso così grande e un po’ storto. Forse la terra che cede, confermando la teoria mai provata di un rifugio antiaereo sotto il prato. Insolubile mistero per noi bambini, così come la limitrofa Villa Engelman allora abbandonata in mezzo a una verde giungla cittadina.
Trent’anni fa, più di metà di una vita passata altrove eppure ancora così legata a via Domenico Rossetti: patriota, umanista e anche giurista triestino. La lapide scolpita proprio sotto il gloriette della casa: segno, anche questo non casuale, di quella cultura poliedrica di matrice italiana dei sudditi dell’Impero. Così è stato anche per mio nonno Piero, suo fratello Giusto e le tre sorelle Maria, Emma e Laura cresciuti da Giuseppe Luzzatto e Alice Fegitz, esempio classico di matrimonio misto, a suon di lezioni di violino e precettori del calibro di James Joyce. Un famiglia poi estesa fra Bologna, Genova, Roma, quasi dispersa, ma una volta tutta riunita attorno a una straordinaria mostra della pittrice capostipite Alice. Il segno delicato di un’artista della borghesia mitteleuropea nella Trieste fra Otto e Novecento, che nell’autunno del 2004 raccoglie tutti i quadri custoditi nelle case di famiglia in giro per l’Italia, come se fossero altrettanti musei. Una festa di cugini: Giusto Fegiz il chirurgo romano, Carlo Fegiz l’architetto romano, Piero Cosulich l’architetto milanese, Antonio e Andrea Cosulich gli armatori genovesi... i figli, i nipoti, mariti, mogli, compagne e compagni: l’Adriaco, ormeggio sicuro del fedele Eos, pieno di Luzzatto e affini come per l’arrivo di San Nicolò.
Pensieri, velati di profonda malinconia per quella perdita così recente, ma ben presto interrotti dall’irruzione energica di Elisabetta Sgarbi e della sua troupe. Subito in cerca, senza preamboli, dell’angolo giusto dove raccontare la storia, la famiglia, le persone, gli intrecci, la casa, la città. Nella veranda? C’è rumore. In salotto? Non c’è luce. La casa è subito scossa da un nuovo potente fremito, come è sempre stato del resto: una riscossa. Sotto il centenario ippocastano? C’è vento.
Ma finalmente ci si ritrova in cucina, sempre quella da mezzo secolo, davanti alla porta finestra che dà sul giardino. L’intervista parte fra i riflessi dei bicchieri di cristallo, tanto antichi quanto spaiati. Eppure in quel luogo, pur fra i ciak ripetuti, è facile raccontare la storia di una famiglia che proprio in quei piatti, tazze, pentole affonda le radici e dirama tante vicende che nascono altrove, e magari altrove si realizzano. Come quella di un professore che vola oltreoceano e conosce l’inventore dei sondaggi di opinione George Gallup intuendone la portata nella nostra società che si sta affrancando dalla monarchia e deve far crescere la democrazia. Un professore che esce dalla torre d’avorio e fonda un’impresa, la Doxa, con tanti dipendenti che farà scuola e avrà tanti imitatori: analizza, ma anche forma, l’opinione pubblica. Un professore che raccoglie i sondaggi ne “Il volto sconosciuto dell’Italia” svelando un Paese nelle opinioni dei suoi cittadini sui problemi della vita quotidiana, sull’economia, il lavoro, gli svaghi: attualissimi ancor oggi (leggere per credere). Un professore che triangola in continuazione Milano-Roma-Trieste, lunghi chilometri ancora a bassa velocità. Ma il fine settimana è sempre a Trieste: nella sua città, nella sua casa, nel suo giardino, nella sua barca, con la sua famiglia.
Poi dalla cucina ci spostiamo con Elisabetta e il suo numeroso staff nella sala da pranzo. Ben separata dal resto della casa, è luogo dove si mangia e si conversa: sempre, fino alla fine del pasto. Ma il racconto non continua, come banalmente si potrebbe pensare, seduti in quella monumentale tavola, che tanti ospiti a fatto accomodare sotto l’occhio attento della nonna Ivetta, dispensatrice di buon cibo e di migliori fiabe. Magris, De Castro, Guicciardi, Sadar le persone che vedevo e sentivo parlare…
No, il mio racconto continua attraverso il vetro lavorato e colorato delle porte che chiudono la sala da pranzo dal resto della casa: attutendo i rumori e bloccando gli odori. Inizia così, nel dialogo attraverso il vetro, un gioco di riflessi e di ombre - sicuramente la mia - che si allungano come la storia di questa casa e dei suoi abitanti in un continuo rimando da un altrove lontano: geografico e culturale. Che però si riavvicina sempre. Ecco cosa sento, anzi risento forte in quel momento: la vicinanza. Una nuova vicinanza con quella casa e i suoi spiriti. Un legame profondo e rigenerante.
Questa è la mia “visione” della Trieste contesa, senza averla neppure vista. Senza sapere se questa e tante altre storie sono state effettivamente riportate nel film. E neppure se veramente le ho dette. Ma, in fondo, che importanza ha? Mi ha aiutato a colmare un vuoto e a riprendere, tornando sempre in via Rossetti oggi casa di mia sorella Erika e di mia zia Alice, la vita.
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