Le voci da Osimo cinquant’anni dopo: la politica e la Chiesa, le associazioni e la gioventù di allora
Le voci di una comunità divisa, sul crinale della Storia. Renzo Codarin, Maurizio Tremul, Miloš Budin, Ettore Malnati, Giorgio Rossetti, Franco Richetti e Roberto Menia ricordano il Trattato di Osimo

Cinquant’anni fa il Trattato di Osimo definì il confine orientale italiano, separando destini e generando sofferenze. Le associazioni, la politica, la Chiesa, la gioventù di allora: ecco le voci di una comunità divisa, sul crinale della Storia.
Gli esuli: Renzo Codarin
Renzo Codarin, presidente di FederEsuli, aveva 17 anni all’epoca della firma del Trattato di Osimo. «Per me – sottolinea – rappresentò la spinta a iniziare quella che sarebbe diventata la mia carriera politica e associativa».
Come fu accolto il Trattato dagli esuli istriani?
«Osimo ha umiliato gli esuli e Trieste. E pur avendo sempre militato nel partito che all’epoca era al governo, la Dc, non ho mai smesso di portare avanti la battaglia contro il Trattato. Abitavo a Chiarbola, rione dove gli esuli erano numerosi e dove quasi tutti votavano Dc o Msi: quando si diffuse la notizia della firma la maggior parte della gente la accolse come un tradimento. Mia nonna materna disse: “L’Italia non doveva farmi questo”».
Quali erano le ragioni di chi parlava di tradimento?
«La maggior parte sapeva che sarebbe stato impensabile rispostare la linea di confine, ma in qualche modo Osimo costituì la fine della speranza di tornare a una situazione un po’ meno sfavorevole. Si capiva che a pesare erano stati anche gli interessi geopolitici, con Stati Uniti e Nato che volevano trattare bene la Jugoslavia di Tito, in modo che restasse sganciata dal blocco sovietico. Trieste perse definitivamente il suo retroterra e si ritrovò a vivere in un contesto complicato dal punto di vista economico, da cui sarebbe uscita solo parecchi anni dopo».
Qual è stato il difetto più evidente del Trattato?
«Non aver previsto un risarcimento equo per gli esuli che avevano dovuto lasciare i loro beni e che poi la Jugoslavia nazionalizzò. L’Italia avrebbe potuto e dovuto chiedere molto di più. Fu una responsabilità pesante della Dc e incisero anche le logiche del compromesso storico».
I rimasti: Maurizio Tremul
Nel giudicare il Trattato di Osimo a distanza di mezzo secolo Maurizio Tremul, presidente dell’Unione italiana, ne sottolinea anzitutto la portata storica: «Ha chiuso il contenzioso confinario e territoriale tra Italia e Jugoslavia, segnando di fatto la fine reale della guerra e l’avvio di un percorso nuovo».
Il Trattato sarebbe stato migliorabile?
«Sì, è chiaro che ci sono difetti, a cominciare dal mancato risarcimento per gli esuli, che sono coloro che hanno pagato più di tutti il prezzo della sciagurata guerra voluta dal Fascismo. Per loro si sarebbe potuto fare uno sforzo maggiore».
Quanto incise il contesto geopolitico?
«Incise eccome. L’Italia era in una posizione di debolezza. Arrivava da una guerra persa e la Jugoslavia per l’Occidente rappresentava un paese strategico nell’ottica degli equilibri della Guerra fredda. Ho ricordato gli esuli, ma a pagare un prezzo alto fu anche la comunità italiana dei rimasti, come la mia famiglia, che ha continuato a tenere viva l’identità, la tradizione culturale e linguistica. Eppure in Italia ci additavano come dei “comunisti”».
Che eredità ha lasciato il Trattato di Osimo?
«Dopo cinquant’anni possiamo dire che ha posto la parola fine al lunghissimo e doloroso periodo del conflitto, contribuendo a creare le basi per la stabilizzazione e l’inizio di quella fase di collaborazione di cui possiamo vedere i frutti. Se oggi l’Italia ha rapporti bilaterali straordinari con Slovenia e Croazia nell’ambito dell’Ue lo dobbiamo anche ad Osimo. L’amarezza per la perdita della Zona B c’è ancora, ma i confini adesso non ci sono più ed è giusto che cadano anche nelle nostre menti».
Gli sloveni in Italia: Miloš Budin
Milos Budin ex parlamentare ed ex sottosegretario alle Politiche comunitarie e al Commercio estero, dà un giudizio complessivamente positivo sul Trattato di Osimo.
Perché i pregi dell’intesa superarono i difetti?
«Credo che dopo mezzo secolo si possa dire che quelle di Osimo furono scelte sagge, da una parte e dall’altra. Va considerato il contesto storico internazionale di allora, con gli equilibri tra Occidente e blocco sovietico. E chi governava l’Italia doveva pensare anche a come gestire politicamente un eventuale dopo-Tito, che avrebbe rischiato di risvegliare in Italia rivendicazioni che non era il caso di risvegliare».
Sarebbe stato comunque possibile ottenere un compromesso più favorevole per l’Italia?
«Si arrivava da una guerra, c’erano vincitori e vinti. Se alla fine si arrivò a firmare l’accordo evidentemente il governo italiano riteneva che, tutto sommato, fosse vantaggioso farlo. In tanti la considerarono un’occasione persa, ma è questione di punti di vista. Anche oltre confine in tanti ritennero, all’epoca, che la Jugoslavia avrebbe potuto ottenere di più».
Osimo ha avuto il merito di aprire la strada per la pacificazione e la riconciliazione?
«Si, perché ha chiuso formalmente un capitolo consentendo di aprirne un altro, quello dell’elaborazione definitiva dei traumi del passato. Da Osimo è cominciato il percorso che oggi ha portato al traguardo della convivenza pacifica e costruttiva, sia nel campo delle relazioni internazionali con Slovenia e Croazia, sia nell’ambito della multietnica società della Venezia Giulia. Un cammino difficile sul piano politico e culturale, di cui il Trattato è stato il punto di partenza necessario».
La Chiesa: Ettore Malnati
Per decenni vicario diocesano per la cultura, teologo e docente universitario, monsignor Ettore Malnati ha vissuto in prima persona gli anni in cui Trieste cercava ancora un equilibrio dopo la guerra. Accanto all’arcivescovo Antonio Santin, fu testimone delle reazioni della Chiesa triestina al Trattato di Osimo.
Quale fu la posizione della Diocesi?
«Santin mantenne una linea di piena coerenza con tutto ciò che aveva sostenuto in precedenza: una visione globale e non partitica della questione, attenta ai diritti delle persone. Già nel 1954, quando Trieste tornò all’Italia, parlò di “gioia dimezzata”, perché restava l’incognita del destino delle popolazioni della zona B. La sua preoccupazione era che il regime jugoslavo potesse ledere la dignità di chi, per lingua o fede, apparteneva a un’altra identità culturale».
Come si arrivò al Trattato da parte del governo italiano?
«Santin parlò più volte con Andreotti e con Rumor, suggerì prudenza, ma Roma volle chiudere rapidamente per motivi geopolitici, nel tentativo di agganciare la Jugoslavia al blocco occidentale. Così facendo, però, non si ascoltarono né i triestini né le 60 mila firme che chiedevano di rivedere l’accordo. Fu uno schiaffo alla democrazia».
A cinquant’anni di distanza, quale lezione resta?
«Che il Trattato di Osimo fu un errore di metodo e di merito. Si decise sopra la pelle della gente, senza un vero confronto con la città. Sarebbe bastato attendere, come suggerivano anche alcuni esponenti dell’Onu, e forse le cose sarebbero andate diversamente».
L’ex parlamentare Pci: Giorgio Rossetti
Giorgio Rossetti, europarlamentare del Pci per due legislature, considera il Trattato di Osimo come «l’inizio di una fase nuova, quella in cui maturò la frattura tra i partiti e la città».
Che cosa rappresentò per il Pci quel passaggio?
«Fu un atto necessario e positivo. Stabilizzava una frontiera ancora attraversata da tensioni e incidenti, consolidava quanto già definito dal memorandum di Londra e apriva protocolli di cooperazione con la Jugoslavia di Tito, che era bene concludere finché Tito c’era. Garantiva inoltre condizioni più favorevoli per le minoranze, dentro un quadro europeo che cercava di superare le logiche della guerra fredda».
Che ricordo ha delle reazioni a Trieste?
«Le proteste erano prevedibili. Destra e una parte della Dc avevano alimentato l’illusione di un “ritorno”, e la firma di Osimo fu vissuta come un tradimento. Il vero contraccolpo alle urne arrivò nel 1978, con la nascita della Lista per Trieste, che intercettò la delusione e la paura di perdere identità».
Che significato ha oggi quella vicenda?
«Trieste anticipò un sentimento che vediamo riemergere oggi in tutta Europa. La Lista per Trieste fu il primo segnale dell’antipolitica. Mise insieme tutto e il contrario di tutto: nazionalisti e socialisti, esuli e triestini, conservatori e libertari. E fu il primo segnale di una paura che ha germinato e oggi serpeggia in tutta Europa: quella dei migranti, e del pericolo per l’identità che rappresenterebbero, senza vedere che non esiste un’identità definita e definitiva una volta per tutte».
L’ex sindaco Dc: Franco Richetti
«Osimo fu un passaggio delicato, ma necessario: la fine di una stagione di sospetti e l’inizio di un dialogo nuovo con l’altra parte del confine». Franco Richetti, sindaco di Trieste per due mandati dal 1983 al 1991 e all’epoca capogruppo della Democrazia cristiana in Comune, ricorda quei giorni carichi di tensione politica e di attesa.
Che clima si respirava allora in Consiglio?
«Erano momenti complessi. Assieme al sindaco Spaccini e al capogruppo dei Liberali Zimolo, decidemmo di presentare una mozione in cui si approvava il Trattato come volontà di trasformare un vicinato in amicizia e collaborazione, ma si chiedeva di eliminare ogni riferimento alla zona franca mista prevista nel testo. Pensavamo che così si potesse favorire una maggiore intesa».
E come fu accolta la vostra proposta?
«Non bene. Interpellammo il sottosegretario Belci, che conoscevamo personalmente, ma la risposta fu un no netto. Quella parte restò invariata. Nonostante ciò, votammo a favore del provvedimento, convinti che il dialogo fosse comunque la strada giusta per superare diffidenze e rigidità ormai anacronistiche».
Cinquanta anni dopo, che giudizio si può dare?
«Le situazioni si sono evolute, le frontiere si sono aperte, la cooperazione è cresciuta, sono nate nuove vie di comunicazione, stradali e ferroviarie. La città è stata ascoltata, prima dalla Regione e poi dallo Stato. Quel Trattato, pur con le sue ombre, pose le basi per un futuro di collaborazione stabile e di amicizia vera tra due popoli che avevano condiviso troppe ferite».
Il senatore FdI: Roberto Menia
«Avevo solo 14 anni, ma non mi fu difficile capire che si trattava di un tradimento». Il senatore di Fratelli d’Italia, Roberto Menia, ribadisce la sua storica contrarietà al Trattato di Osimo, «una rinuncia inaccettabile ai nostri diritti».
Cosa la colpì all’epoca?
«Andai in piazza, come tanti triestini, come tanti giovani. A casa conservo ancora la terra di Buie d’Istria, la terra di mia madre. A colpirmi in quell’occasione fu la scelta della rinuncia. Un errore figlio del rinunciatarismo italiano: una cessione di territorio trent’anni dopo la guerra, quando la Jugoslavia già si stava sfaldando. Io lo considerai allora, e lo considero oggi, un episodio ignobile, un tradimento consumato di notte negando fino all’ultimo che stesse accadendo».
Che pericoli intravedevate?
«Io allora mi opposi tra l’altro al progetto di zona industriale italo-jugoslava sul Carso: un pericolo ambientale e politico, che avrebbe potuto “balcanizzare” la città. L’Italia accettò di amputarsi una parte di sé, di smettere di difendere la propria storia e i propri confini. Per me Osimo resta un atto di resa morale, non solo territoriale».
Che senso ha oggi ricordarlo, cinquant’anni dopo?
«Serve a capire che quell’errore continua. Quando l’Italia riconobbe subito Slovenia e Croazia, accettò che si dichiarassero “successori” del Trattato di Osimo. La Jugoslavia avrebbe dovuto pagarci 110 milioni di dollari per i beni nazionalizzati: non abbiamo mai visto un centesimo, né ci è stato restituito un mattone. Abbiamo regalato tutto, e pure detto grazie».
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