Vita e sorte dei duemila volontari adriatici

Credevano nell’Italia, sognavano un mondo migliore ma furono guardati con sospetto e poi strumentalizzati dal fascismo
Irridentisti triestini sulla nave Adriatico nel gennaio del 1915
Irridentisti triestini sulla nave Adriatico nel gennaio del 1915

A differenza di quanto era accaduto in Europa nell’estate del 1914, in Italia non vi furono particolari entusiasmi per lo scoppio della guerra, e limitato fu anche il flusso di arruolamenti volontari, che fu tuttavia incrementato da giovani – e meno giovani – provenienti dalle «terre irredente»: il Trentino, la Venezia Giulia, il Fiumano e la Dalmazia. La cifra a lungo accreditata di 2100 volontari adriatici elaborata da Federico Pagnacco nel 1928, va ritoccata al ribasso – analogo ragionamento va svolto per i volontari trentini – essendovi stati compresi anche dei cittadini italiani, residenti e/o nati nel Litorale, sulle cui modalità di arruolamento occorrerebbe svolgere più approfondite indagini; in secondo luogo, vi risultano compresi gli oltre 300 austro-italiani prigionieri di guerra dei russi che in parte confluirono nel Corpo di spedizione italiano in Estremo Oriente, in parte non riuscirono a raggiungere l’Italia se non al termine del conflitto; arbitrario è infine l’inserimento di alcuni legionari fiumani, o di persone morte in altre circostanze, nell’elenco dei volontari della Grande guerra. Tali considerazioni tuttavia non inficiano la portata morale della scelta di chi sfidò le autorità militari asburgiche per entrare nell’esercito italiano, ma evidenzia le caratteristiche elitarie di un fenomeno che ha a lungo monopolizzato la memoria del conflitto nella regione. La maggioranza dei volontari era costituita da giovani studenti, laureati, neo-diplomati, maestri, impiegati, ovvero dai figli della classe medio e piccolo borghese che avevano ricevuto nelle istituzioni educative e scolastiche del Litorale, di Fiume e della Dalmazia una formazione improntata ai valori dell’identità italiana: a questa concorrevano innanzi tutto la tradizione familiare, poi la scuola, i ricreatori comunali, associazioni e organizzazioni sportive, l’amore per la montagna. Cultura, letteratura classica e italiana, la stampa di orientamento irredentista rappresentavano il sostrato culturale comune a questi giovani che, irredenti e no, erano uniti dallo stesso sentire e dalle stesse aspettative. La loro scelta può essere letta anche come lo sbocco di una rivolta generazionale, mentre giocò un ruolo importante anche il senso di appartenenza ad una stessa piccola comunità, formatasi appunto nelle realtà educative ed associative cui si è fatto cenno: una comunità di maggio analoga alla più ampia «comunità d’agosto» dei giovani volontari europei del 1914. Il mondo del volontariato adriatico vide non solo la partecipazione di alcuni giovanissimi – diciassettenni erano al momento dell’arruolamento personaggi come Aurelio e Fabio Nordio, regnicoli, o Ugo Polonio – ma anche quella di uomini della generazione precedente, come Emo Tarabocchia o Giacomo Venezian, entrambi caduti al fronte. A partecipare a tale movimento furono inoltre alcuni giovani intellettuali come Carlo e Giani Stuparich, Scipio Slataper, Renato Timeus, Guido Devescovi, Alberto Spaini, Biagio Marin ed altri ancora, che contribuirono a creare intorno al movimento ulteriori motivi di interesse. Tutti, comunque, come i loro omologhi trentini, dovettero misurarsi innanzitutto con le diffidenza delle autorità militari italiane e talora con quella dei propri commilitoni: le prime avevano sempre mal visto la figura del volontario, legata alla tradizione garibaldina e repubblicana – effettivamente numerosi erano tra i volontari irredenti i mazziniani –; i secondi, perché ostili verso quanti erano ritenuti fautori di una guerra che essi non avevano voluto e a maggior ragione verso chi proveniva da terre «nemiche». Superati gli scogli giuridici per l’arruolamento nell’esercito italiano di cittadini «stranieri», ai volontari venne inoltre assegnato un nome di guerra, per evitarne il riconoscimento in caso di cattura, una misura che si rivelò inutile per Cesare Battisti, Damiano Chiesa, Fabio Filzi, Nazario Sauro – più complessa la vicenda del dalmata Francesco Rismondo – condannati a morte per la scelta compiuta.

Al termine del conflitto, tra i volontari giuliano-dalmati i caduti furono oltre 300, a testimonianza della coerenza con cui essi avevano affrontato la prova della guerra. Quando questa ebbe fine, la loro esperienza fu presto messa al servizio delle nuove autorità governative anche in termini di propaganda per la lotta nazionale; ma fu soprattutto il fascismo ad alimentarne il mito e a monopolizzarne la memoria. L’intitolazione di piazze, strade, scuole e ricreatori, la realizzazione di monumenti, le manifestazioni pubbliche, i musei e la pubblicistica ebbero per protagonisti i volontari caduti, in un disegno che intendeva riaffermare l’italianità di queste terre, mitizzando al tempo stesso l’esperienza bellica. Le differenze che avevano caratterizzato i volontari sul piano politico nel momento della lotta per l’intervento e negli anni precedenti il conflitto, attutitesi durante la guerra, furono così accantonate nella costruzione di una memoria univoca, ma si ripresentarono quando si trattò di scegliere tra fascismo e democrazia; così, mentre il monumento a Nazario Sauro di Capodistria veniva distrutto dall’«alleato germanico» durante l’occupazione nazista della Venezia Giulia, alcuni ex volontari animarono o sostennero la resistenza italiana nella regione, e alcuni di essi, come Gabriele Foschiatti e Giuseppe Pogotschnigg pagarono con la deportazione e con la vita i loro ideali, ispirati ad un amor di patria ben diverso da quello che per anni la propaganda fascista aveva imposto al Paese.

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