Alice Albinia all’Hemingway racconta le anime dell’India

Domani mattina parlerà a Lignano con Gianmario Villalta del libro edito da Adelphi e in serata riceverà il Premio che le è stato assegnato per la sezione Reportage
Di Alice Albinia

Alice Albinia è la vincitrice del Premio Hemingway per la sezione Reportage con “Imperi dell’Indo”, pubblicato da Adelphi. L’autrice parlerà del libro con Gianmario Villalta domani alle 11 al Parco Hemingway di Lignano e riceverà il premio domani sera durante la cerimonia che si terrà al Kursaal di Lignano Pineta.

Autrice e giornalista pronta a rischiare la vita per raccontare il Pakistan e le derive del fondamentalismo islamico, Alice Albinia è nata a Londra nel 1976 e con “Imperi dell’Indo” ha già ricenuto importanti premi internazionali.

di ALICE ALBINIA

Dieci anni fa, quando vivevo a Delhi, le presentazioni di libri erano eventi solenni. C’erano solo tre luoghi in cui si tenevano e vi si accedeva esclusivamente su invito. L’imponente edificio in mattoni rossi dell’India Habitat Centre era riservato alle raccolte di poesia e alle inchieste politiche. L’India International Centre, uno stabile degli anni sessanta, scarsamente illuminato, ospitava le memorie dei diplomatici e dei generali in pensione (e addolciva le loro conferenze con la specialità della casa, gelato di fichi e miele). I romanzi invece venivano presentati all’auditorium del British Council, un edificio sorprendentemente incantevole nel cuore di Nuova Delhi, decorato da Howard Hodgkin con un murale che richiama alla mente una mucca frisona.

I miei ricordi di quel periodo sono di lunghi viaggi in macchina, per attraversare la città dalla sede della rivista letteraria dove lavoravo, di momenti ufficiali (c’era sempre qualche prima formale di un libro), di serate alcoliche piene di conversazioni chiassose e impareggiabili.

La gente di Bombay ha sempre accusato i “delhiani” di essere degli iper-intellettuali. A maggio, mentre ero in tour col mio romanzo Leela’s Book, ho scoperto che nella città natale di Bollywood l’elegante scena letteraria, caratteristica di Delhi, viene scalzata gradualmente dagli eventi aperti a tutti. Eventi che si tengono nelle nuove librerie di catena, costruite intorno a una caffetteria – elemento fondamentale, perché attrae una folla eterogenea di adolescenti intenti a messaggiare coi cellulari e di ziette che sorseggiano il tè. I libri sono disposti in modo da rispecchiare questo mix. In contrasto alle gerarchie, considerate opportune a Delhi o a Londra, Orhan Pamuk condivide il tavolino con il best-seller delle diete Dalla XL alla XS, il guru dello stile di vita Deepak Chopra è impilato accanto alla sanscritista Wendy Doniger. L’ordine letterario viene demolito e ricostruito. La più grande democrazia al mondo ha cambiato le regole: Jeffrey Archer ora è allo stesso livello di J.M. Coetzee.

Bangalore, la città cyber del sud, ha spinto questo egualitarismo perfino oltre. Qui, nei nuovi centri commerciali di cemento, i libri sono esposti accanto a scaffali di profumi stranieri e giocattoli cinesi. L’illuminazione fluorescente al neon è uno degli aspetti sinceramente sgradevoli di questi nuovi templi del libro. Tutto il resto è solo lievemente sconcertante.

A Delhi avevo trascorso due estati. Mi è sembrato giusto, quindi, tornarci questo maggio per rientrare in contatto con la calura allucinogena che aveva dato origine ai miei libri: non solo al romanzo Leela’s Book, ma anche al diario di viaggio che lo aveva preceduto, Imperi dell’Indo. In quei lontani giorni gloriosi senza internet con cui navigare, senza cellulare per mandare messaggi, senza frigo dove tenere al fresco il cibo, la sudorazione mi teneva incollata, più appiccicaticcia di una patella, alla mia scrivania. Non avevo nient’altro da fare, se non leggere. E scrivere. Nella stagione del mango furono concepiti due romanzi, contemporaneamente.

Leela’s Book è incentrato sulla Delhi di allora. A distanza di dieci anni, alcuni aspetti della città – e delle vite nella città – sembrano rimasti inalterati. A Nizamuddin West, la colonia residenziale dove vivevo e di cui scrivo, l’allegro barbiere dispensa ancora massaggi alla testa e ricariche di cellulari. La baracca del calzolaio non è mai stata abbattuta, né sistemata. Il successo di quest’artigiano di casta bassa sta nel continuare a commerciare senza essere molestato. Deepak, l’uomo con il carrello della verdura, continua a fare i suoi giri. Wazir Ali, Maestro di Sartoria, che ha confezionato i miei vestiti da damigella d’onore (oltre a uno splendido abito in seta nera con una sola manica), produce ancora camicette sari e camice ricamate, indifferente agli anni che passano.

Per altre persone, invece, l’India si è trasformata. Gran parte di questo cambiamento riguarda le cose da comprare (e i prezzi da pagare). Non solo i mango, ma anche i vestiti di Mango; non solo il chai – il tè – ma anche i caffè schiumosi di Starbucks. Dieci anni fa, il più vicino ristorante autenticamente vegetariano, in una Nizamuddin dominata dalla carne, era Sagar: si passava a piedi sotto il viadotto e si attraversava la strada principale per l’hotel Lodhi. Sagar era un locale pittoresco, frequentato da molte famiglie e con camerieri sempre sorridenti. Dieci anni dopo, colta dalla voglia di un refrigerante dahi idli allo yoghurt, ci sono tornata. Ma il luogo che ricordavo era svanito, e mi sono ritrovata a vagare in uno spazio tutto luccicante di palazzoni di vetro, reticoli di arenaria, sculture di mammut hindu e laghetti con petali. La trasformazione, come scoprii, era opera di Aman Resorts, una catena di hotel di lusso. La zuppa di mais che ordinai al ristorante costava dieci volte di più di un piatto analogo di Sagar.

Un tardo pomeriggio, il mio direttore mi ci riportò per una nuotata. La piscina era quasi vuota, e mentre facevo le mie vasche tranquilla, continuavo a pensare al posto in cui si era trasformata Delhi. Fui risvegliata dalle mie riflessioni dal richiamo alla preghiera.

Il grido del muezzin riecheggia in entrambi i miei libri. Fu in parte grazie a questo canto musulmano di una bellezza evocativa se avevo varcato il confine del Pakistan per Imperi dell’Indo. Fu sempre questo canto che aveva continuato a farmi tornare a Delhi per Leela’s Book. Mentre quell’assolo maschile fluttuava, quasi fuori luogo, sopra l’acqua, trasportato dal vento dalle moschee di Nizamuddin, la tristezza che avevo sentito a intermittenza da quando ero tornata in India, riaffiorò. Probabilmente tutti gli scrittori la provano: la malinconia autoindulgente che accompagna il completamento di un progetto letterario. Ma la mia tristezza era anche temperata dal timore: per questo mondo audace e stimolante, di cui un tempo ero stata parte, che mi ha fatto diventare una scrittrice, e che ora si stava trasformando con una rapidissima e scioccante incompiutezza.

(Traduzione di Laura Pagliara)

©Alice Albinia

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