Gigi Riva, se un rigore sbagliato diventa il simbolo della Jugoslavia a pezzi

Gli sfortunati mondiali di Italia ’90 e la crisi dei Balcani raccontati in un libro dal giornalista
La nazionale jugoslava ai Mondiali di Italia 90
La nazionale jugoslava ai Mondiali di Italia 90

TRIESTE Piangevano tutti, quel 4 maggio del 1980 allo stadio Poljud. Al minuto 41 del primo tempo, i giocatori dell’Hajduk e quelli della Stella Rossa di Belgrado vagavano per il campo come fantasmi. Con una voce spettrale, il presidente della squadra di casa, Ante Skataretico, oltre che vice presidente del Consiglio croato, aveva appena annunciato la morte del Maresciallo Tito. Zlatko Vujovic, capitano della squadra di casa, era stramazzato a terra. Come se l’avesse colpito un fulmine. Anni dopo avrebbe ricordato l’angoscia, la paura, il silenzio irreale sulle gradinate. E la domanda che tutti, senza dire una parola, si erano rivolti a suon di sguardi: «Cosa sarà della Jugoslavia?».

Dieci anni più tardi, il 26 settembre del 1990, una risposta chiara e netta era arrivata dallo stesso stadio. Mentre il Partizan Belgrado stava strapazzando l’Hajduk, gli ultras più violenti della Torzida avevano invaso il campo, inseguito giocatori e supporter avversari per sprangarli. E dopo aver ammainato la bandiera della Repubblica, blu, bianca e rossa con la stella al centro, le avevano dato fuoco. «Così finirà la Jugoslavia!».

Sta tutta lì, in quelle due sfide calcistiche, la storia del tramonto dell’utopia di Tito e della sua Jugoslavia. A raccontarla non è uno studioso del Novecento, né un professore universitario. Ma un giornalista di razza come Gigi Riva, capo redattore centrale del settimanale “L’Espresso”, per lunghi anni inviato del “Giorno”, che alla crisi dei Balcani ha dedicato reportage capaci di spiegare una delle crisi più annunciate, e meno capite, che hanno insanguinato l’ultima parte del secolo breve.

Gigi Riva è capo redattore centrale dell’«Espresso»
Gigi Riva è capo redattore centrale dell’«Espresso»

Per scoprire le radici del rovinoso crollo della Jugoslavia, Gigi Riva ha voluto scrivere un romanzo. Si intitola “L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e guerra”, lo pubblica Sellerio editore (pagg. 188, euro 15). E prende come spirito guida, per addentrarsi nell’intricatissima storia di vendette troppo a lungo rinviate, di divisioni etniche troppo spesso sottovalutate e soffocate, di errori politici ripetuti fino alla nausea, un calciatore che molti hanno dimenticato: Faruk Hadžibegic. Non un fuoriclasse, ma un campione sì. Un difensore di quelli affidabili. Di quelli che il pubblico ama perché escono dal campo con la maglietta intrisa di sudore. E non risparmiano nemmeno un grammo di energia.

Ecco, proprio lui, Faruk, diventa il simbolo della Jugoslavia che sta per inabissarsi in un mare di sangue e vendette. Perché nei quarti di finale dei Mondiali di Italia ’90 sbaglia il rigore decisivo che avrebbe decretato l’eliminazione della titolatissima Argentina di Diego Armando Maradona. E si carica sulle spalle il peso immenso di portare la fascia di capitano nell’ultima partita amichevole disputata dai Plavi due anni più tardi, il 25 marzo del 1993, contro l’Olanda.

Ma dietro quel rigore sbagliato, dietro quelle partite che i calciatori della Jugoslavia giocavano con sempre minore entusiasmo, si nasconde la storia di un Paese che non riesce più a credere nella necessità di restare unito. Dove serbi e croati non vogliono sentirsi ripetere le parole del grande scrittore Miroslav Krleža, che annotò: «Serbi e croati sono la stessa merda di vacca spaccata in due dal carro della Storia».

E così, sotto le mazzate di una crisi economica che fa coriandoli del modello dell’autogestione socialista, proprio negli stadi di calcio iniziano i primi scontri violenti. Che non hanno più niente a che vedere con le storiche rivalità tra tifoserie di squadre contrapposte. Che portano a galla un odio feroce verso le stesse persone che, fino a poco tempo prima, erano rispettati vicini di casa. Compagni di lavoro, amici di bevute, partner di scampagnate in allegria.

E così sul palcoscenico dei Balcani, e nelle pagine del romanzo di Riva, sfilano personaggi dal ghigno inquietante. Come Željko Ražnatovic, conosciuto con il nome di Comandante Arkan. Ex capopopolo degli ultras della Stella Rossa Belgrado che ha fatto della delinquenza spicciola un trampolino di lancio verso la gestione della pulizia etnica. Indossando la maschera dell’eroe popolare, attorniato dalle feroci Tigri con il tigrotto-simbolo nelle foto ufficiali, va in sposo alla divetta del turbo-folk balcanico.

Oggi Faruk è un uomo di sessant’anni, rispettato allenatore di calcio, che non dimentica quel rigore sbagliato. E che continua a chiedersi se una vittoria contro l’Argentina avrebbe salvato la Jugoslavia.

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