Guarino, il disegnatore che parlava di libertà con un tratto di matita

È morto a Milano Ugo Guarino. L’artista, disegnatore e illustratore, si è spento ieri all’alba in una casa di riposo dove alloggiava. Nato nel 1927 a Trieste, aveva collaborato a lungo con le sue essenziali, splendide vignette alla “Cittadella”, l’inserto umoristico de “Il Piccolo” creato da Lino Carpinteri e Mariano Faraguna. Da molti anni viveva a Milano e collaborava al “Corriere della Sera”. Oggi si terrà una cerimonia di addio a Milano, poi la salma verrà trasferita a Trieste.
di ALESSANDRO MEZZENA LONA
«La libertà è terapeutica», per lui, non era solo una frase ad effetto. Uno slogan da scrivere sui muri dell’Ospedale psichiatrico di Trieste. No, quelle parole, diventate un punto fermo nella rivoluzione di Franco Basaglia, Ugo Guarino le portava impresse dentro di sé. Come un stemma araldico. Perché sintetizzavano perfettamente il suo modo di essere. Il proposito granitico di non lasciare mai che nessuno lo prendesse al guinzaglio. Dall’America era scappato quando ormai un posto fisso all’Ansa ce l’aveva. E più volte aveva rifiutato l’assunzione al “Corriere della Sera”. Anche se Dino Buzzati prima, Indro Montanelli poi, avrebbero fatto carte false pur di tenerlo fisso in squadra con loro.
E così lui, che aveva un talento immenso, era diventato l’uomo invisibile del “Corrierone”. L’artista che firmava ogni giorno un disegno sulla pagina dei lettori, ma pochissimi dicevano di conoscere. Tanto che, se qualcuno si presentava in portineria nel palazzo storico di via Solferino a Milano e chiedeva di lui, riceveva come risposta lunghi silenzi imbarazzati. «Non arrenderti. Digli che Ugo lavora nello stanzone della Cultura», tagliava corto Guarino con un sorriso contagioso.
E quel suo essere invisibile, ogni tanto, gli portava bene. Perché poteva capitare che Indro Montanelli lo invitasse a pranzo a casa sua per vedere se Guarino esistesse veramente. Dal momento che un assiduo lettore del “Corriere” aveva scritto una lettera piena di dubbi sulla reale identità di quel disegnatore dal tratto essenziale, pulito, efficace. Dalla tavola imbandita dal grande giornalista, Ugo si era alzato un po’ più ricco. Perché l’autore della “Storia d’Italia”, dopo avergli chiesto quanto lo pagassero, era sbottato con un: «Potrebbero vergognarsi!». Ottenendo in fretta il raddoppio del compenso.
Ecco, i soldi. Sono sempre stati un problema per Guarino. Da Trieste se n’era andato nel 1952 perché non poteva vivere con le seimila lire della collaborazione alla “Cittadella”, il foglio umoristico pubblicato da “Il Piccolo”. Convinto di essere talmente bravo da conquistare in fretta uno stipendio migliore, s’era trasferito a Milano. E gli era andata bene. Perché Enrico Gramigna, cugino del critico letterario e scrittore Giuliano, visti i suoi disegni lo aveva portato al secondo piano del palazzo di via Solferino. In uno stanzino minuscolo della redazione della “Domenica del Corriere”. Dove stava Dino Buzzati. Lo scrittore del “Deserto dei Tartari”, lì, aveva il ruolo di capo redattore e lo aveva preso subito in simpatia.
«Mi faceva fare le cronache figurate. Dovevo illustrare le notizie più strane - ricordava Ugo Guarino -. Una volta, Buzzati mi ha chiesto di disegnare la storia di un cacciatore che aveva ucciso, di seguito, qualcosa come 799 anatre. Prima che mi ritirassi a lavorare, disse: “Non lasciarne fuori nemmeno una. Poi le conto”. Pensavo scherzasse, invece no. Perché tutti noi dovevamo avere massimo rispetto per i lettori».
Proprio Buzzati, un paio d’anni dopo, aveva convinto Guarino a mettere in mostra i suoi disegni. E si era esposto in prima persona, promettendogli che la sera dell’inaugurazione avrebbe fatto lui stesso la presentazione. «In galleria era presente anche il grande crtitico Gillo Dorfles. Il problema è che io sono arrivato due ore dopo, quando era già tutto finito. Mi ero perso a preparare i cartelloni da appendere all’esterno. Volevo attirare più gente». Il giorno dopo, sul “Corriere d’Informazione”, Buzzati aveva scritto che quel ritardo era un’ottima trovata pubblicitaria.
Milano non poteva essere per sempre. Non per Guarino, che sognava la vita da artista. Come Picasso, Modigliani. Così aveva preso la strada per Parigi. Ma visto che la capitale francese era «diventata un mortorio», ingabbiata nell’atmosfera plumbea degli anni della guerra d’Algeria, s’era imbarcato presto su una nave per fare rotta sugli States. «Nel New Jersey, la Fairleigh Dickinson University forniva borse di studio per l’estate a pittori di un certo valore. Pagavano vitto, alloggio, colori, tele. Ma non il viaggio». E allora Buzzati, tramite l’amico Alfredo Pigna, aveva trovato a Guarino un posto su un cargo: undici giorni di navigazione, da Genova a New York, senza scali.
Poteva pensare di fermarsi a lungo in America? Risucchiato nella frenesia di New York, Guarino aveva inaugurato in rapida sucessione due mostre: una al Cinema Two, l’altra alla Empire State Gallery. E tanto per arrotondare, si era fatto assumere dall’Ansa. «Dovevo scrivere articoli di cronaca nera. Ma mi sono fatto prendere dall’entusiasmo. E quando ho presentato un pezzo intitolato “Il bacio della Morte”, costruito tutto come un vecchio film di Henry Hathaway con Victor Mature e Coleen Gray, mi hanno spiegato che il giornalismo non è letteratura. E dopo un po’ ho deciso di tornare in Italia».
C’era un libro, ad aspettarlo. “L’istituzione negata” l’aveva scritto un giovane psichiatra veneziano: Franco Basaglia. Dopo poche pagine, Ugo Guarino aveva deciso che doveva assolutamente avvicinare quell’uomo. Conoscerlo. Anche perché la sua mamma, di origine slovena, era ricoverata da anni in manicomio. «Raccontava con orrore che cosa avveniva là dentro. Storie che mi facevano pensare a un lager nazista», ripeteva spesso a chi gli chiedeva perché si fosse fatto coinvolgere dalla rivoluzione basagliava. E ogni volta i suoi occhi si riempivano di lacrime.
Preso un appuntamento con Basaglia, tramite lo psicologo triestino Gaetano Kanitsa, Guarino aveva deciso di rientrare a Trieste. «Ricordo ancora che lo incontrai in una stanza del comprensorio di San Giovanni. C’era la moglie, Franca Ongaro, con lui. Ho detto solo: “Vorrei fare qualcosa con voi”. Mi hanno accompagnato alla scuola di pittura, che era decisamente allo sbando. E lì, tra tanti, un omone mi guardava con diffidenza: “La xe pitor lei?”. In pochi minuti ho disegnato per lui un cavallo. E l’ho conquistato così».
La libertà è terapeutica, la verità è rivoluzionaria. Quelle parole, Ugo Guarino, le leggeva dentro di sé. E nella felicità degli occhi di sua mamma. «Un giorno sono andato a trovarla. C’era qualcosa di diverso rispetto al solito: le porte dell’Accettazione erano aperte. Mi sono avvicinato a un infermiera e ho chiesto cosa fosse successo. E lei: “Xe rivà Basaglia”. Niente pià camicie di forza, letti di contenzione, botte, urla».
Negli ultimi tempi, gli amici raccontano che Ugo Guarino fosse pronto a lasciare la casa di riposo di Milano. E partire per un nuovo, lungo viaggio: l’ultimo. Con una gioia immensa nel cuore: la mostra antologica che Trieste gli ha voluto dedicare l’anno scorso. Perché nell’«Alfabeto essenziale di Ugo Guarino», allestita da Silvia Magistrali e Francesca Tramma da giugno fino a ottobre al Revoltella, c’era tutto il suo mondo di artista. Raccolto, per la prima volta, in un museo. Come capita soltanto ai grandi.
alemezlo
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo








