Il dramma quotidiano di Lampedusa visto da un ragazzino
Premiandolo con l’Orso d’Oro al Festival di Berlino appena concluso, la presidente di giuria Meryl Streep ha detto di “Fuocoammare” che si tratta di un “film necessario”. Non ci sono parole migliori per descrivere l’ultimo emozionante documentario di Gianfranco Rosi che ci porta dritti a Lampedusa nella tragedia quotidiana dei migranti che approdano, vivi o morti, sulle sue coste, ma anche nella routine quasi sospesa dei lampedusani, gli abitanti del confine più a Sud dell’Europa.
Il regista si è trasferito a Lampedusa per un anno e mezzo per osservare un microcosmo che scopriamo subito complesso, e piuttosto sconosciuto. Il film segue la vita sull’isola dei lampedusani Samuele, un ragazzino di 12 anni che vive con la nonna e il padre pescatore, del quale vorrebbe seguire le orme anche se soffre di mal di mare; il medico locale Pietro Bartolo, che cura i disperati dei barconi come la gente del posto; il dj della radio dell’isola, che accoglie le dediche musicali della comunità, per lo più famiglie di pescatori che si augurano bel tempo per poter pescare e mantenersi. E poi ci sono i migranti, che arrivano a decine sull’isola di giorno e di notte, aggrappati alla sopravvivenza, o vengono soccorsi in mare a un passo dal baratro.
In “Fuocoammare” la prima cosa a colpire è la dimensione del quotidiano: fuori dalle pagine dei giornali e delle polemiche dei salotti televisivi, i migranti tornano persone reali, corpi, occhi, braccia, individui con un passato e un'identità. Rosi non teme di avvicinare la macchina da presa al loro dramma, ma con misura e rispetto, senza alcuna pornografia del dolore. Alcune sequenze restano indimenticabili come quando, appena sbarcati e diretti al centro di smistamento, i migranti escono dall'autobus avvolti dalle coperte isotermiche, come supereroi in mantelli dorati sopravvissuti all’inferno. O quando Rosi sale su un barcone evacuato scoprendo, nella stiva, un groviglio di corpi senza vite, bottigliette d’acqua svuotate troppo presto, indumenti che non servono più a proteggere dal freddo.
«È dovere di ogni uomo, che sia un uomo, aiutare queste persone», dice il medico mostrandoci le foto delle terribili condizioni di chi riesce ad arrivare, magari vivo per miracolo. Com’è nel suo metodo, Rosi si è immerso nella comunità lampedusana, ha scelto delle persone significative e ne ha seguito le storie individuali, intrecciandole con un affresco più allargato. Come anche in “Below Sea Level”, dove raccontava gli emarginati nomadi e hippies dell’accampamento di Slab City in California, e in “Sacro Gra”, dove si calava fra chi vive attorno al Grande Raccordo Anulare di Roma, il regista narra insomma “la parte per il tutto”, ma questo suo sguardo parziale gli permette di caricare di simboli e significati le vicende che isola. In “Fuocoammare” gli riesce bene con la coincidenza dell’ “occhio pigro” del quale soffre il piccolo Samuele: nel film, diventa in un certo senso l’ “occhio pigro” dell’Europa di fronte al dramma dei migranti.
L’altra cifra del suo cinema è la capacità di rendere “personaggi” le persone che osserva: un pregio, in termini narrativi, che però a volte lascia il sospetto di passaggi troppo costruiti e di qualche furbizia. È un’impressione, tuttavia, che gli si perdona: la sua forza poetica ed estetica, il suo sguardo umano da cittadino del mondo (è nato in Eritrea, si è trasferitoventenne a New York, ha viaggiato molto soprattutto in India e in Messico) lo pongono a livello dei grandi narratori contemporanei che descrivono il mondo a partire dall’uomo, come il regista di “The Act of Killing” Joshua Oppenheimer o il fotografo Sebastião Salgado. Vedere “Fuocoammare” è dunque necessario per aprire gli occhi su un dramma reale e urgente, “la più grande tragedia dopo l’Olocausto”, come l’ha definita lo stesso Rosi. Ma anche perché è una lancinante lezione di cinema della realtà, che colloca definitivamente Rosi, unico italiano oltre a Michelangelo Antonioni ad aver vinto il Leone d’Oro a Venezia (nel 2013 con “Sacro Gra”) e l’Orso d’Oro a Berlino, fra i grandi documentaristi internazionali.
Riproduzione riservata © Il Piccolo








