La Biennale Architettura pensa agli immigrati

VENEZIA. «La forma è importante e altrettanto importante è lo stile, ma l'architettura deve dare innanzitutto risposte ai problemi delle persone, soprattutto di chi è meno fortunato. Meglio un edificio meno bello, magari persino imperfetto, ma che serva davvero a qualcosa, che migliori la qualità della vita di chi ci andrà ad abitare».
Sono le parole del cileno Alejandro Aravena, già enfant prodige dell'architettura contemporanea e direttore della XV Biennale Architettura che aprirà i battenti il prossimo 28 maggio a Venezia. A soli 48 anni sembra aver scalato tutte le vette possibili, raccogliendo i più alti riconoscimenti a livello mondiale: lo scorso marzo The Design of the Year a Londra (considerato l'Oscar del design) e un mese fa a Chicago il Premio Pritzker, una sorta di premio Nobel dell'architettura. Insomma sulla carta Aravena sembra essere un archistar di prima grandezza, ma per carattere dimostra invece di prediligere posizioni di frontiera.
Non a caso la sua Biennale si intitolerà "Reporting from the front" e avrà come immagine simbolo una foto scattata da Bruce Chatwin che ritrae l'archeologa tedesca Maria Reiche arrampicata su una scala di alluminio in pieno deserto peruviano per studiare le linee Nazca, il cui disegno complessivo da terra non avrebbe potuto cogliere. Un taglio politico nel senso più ampio del termine per questa Biennale, come ha sottolineato il Presidente Paolo Baratta, che mette l'architettura e soprattutto gli architetti di fronte a domande, anche scomode, non più procrastinabili con l'ottimistica speranza di intravedere con un "expanding eye" - come l'archeologa sulla scala - nuove linee guida per il futuro della progettazione urbana. Una sfida quella lanciata da Aravena a 88 architetti (di cui 33 under 40) provenienti da 37 paesi per riuscire a raccogliere progetti concreti, realizzati e casi esemplari in cui l'architettura ha fatto e sta facendo la differenza nei luoghi e nelle situazioni più estreme. «Reporting from the front - spiega - si propone di mostrare ad un vasto pubblico cosa significhi migliorare la qualità della vita mentre si lavora al limite, in circostanze difficili, affrontando sfide impellenti o cosa occorre per essere in prima linea e cercare di conquistare nuovi territori». Un'architettura dal volto umano, di forte taglio sociale, che nella kermesse veneziana sarà anche al centro di un fitto programma di incontri con i protagonisti della mostra. Quest'anno anche tre progetti speciali, di cui uno dedicato al complesso tema della riconversione di Porto Marghera e di tutti i waterfront del mondo.
Laureatosi all'Università Cattolica del Cile, Aravena torna a Venezia, dove ha studiato da ragazzo allo Iuav e all'Accademia di Belle Arti, per firmare una Biennale che propone di «condividere con un vasto pubblico il lavoro di persone che scrutano l'orizzonte alla ricerca di nuovi ambiti di azione, affrontando temi quali la segregazione, le disuguaglianze, le periferie, l'accesso a strutture igienico-sanitarie, i disastri naturali, la carenza di alloggi, la migrazione, l'informalità, la criminalità, il traffico, lo spreco, l'inquinamento e la partecipazione delle comunità».
Semplice nei modi e nel linguaggio Aravena non affronta mai le domande di petto, specie se si parla di architettura, ma trova sempre le risposte che non ti aspetti, quelle più semplici: «Più grande è il problema - spiega - più grande è il bisogno di semplicità nel risolverlo». Così ha fatto con il suo Elemental, il progetto residenziale realizzato nel 2005 in Cile che lo ha reso famoso in tutto il mondo per aver creato 100 abitazioni con soli 10 mila dollari per unità, coinvolgendo attivamente nella costruzione i futuri occupanti. Edilizia sociale fai da te? No, un nuovo modo di vedere le cose, di utilizzare l'architettura non come un esercizio di narcisismo costruttivo per archistar, ma come uno strumento capace di trovare le soluzioni più opportune per far vivere meglio le persone, specie le più povere. Una rivoluzione o un'evoluzione che riporta progettisti, urbanisti e designer con i piedi per terra, a confrontarsi con le urgenze di chi fa fatica a sopravvivere.
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