La buona informazione deve sopravvivere con notizie fatte di carta

di Mary Barbara Tolusso Siamo nell'era dell'informazione globale. Sì, ma di che tipo? Affronta la questione Julia Cagé in "Salvare i media. Capitalismo, crowdfunding e democrazia" (Bompiani, pag....
Di Mary Barbara Tolusso

di Mary Barbara Tolusso

Siamo nell'era dell'informazione globale. Sì, ma di che tipo? Affronta la questione Julia Cagé in "Salvare i media. Capitalismo, crowdfunding e democrazia" (Bompiani, pag. 122, euro 16,00). Lo schianto della carta stampata è innegabile, tanto più dopo l'era Internet. Ma è indubbio che una vera informazione, fatta di approfondimento e analisi, rimane appannaggio della carta, non certo dei resoconti online. Vero è che oggi tutti si credono giornalisti, senza un vero tesserino da professionista, basta aprire un blog, un giornale on line o una pagina di un social network. Come salvare i media? Ci ha pensato l'economista francese attraverso un nuovo modello di governance. Un modello teso a difendere non solo il pluralismo delle idee, ma anche la proprietà dei mezzi. Julia Cagé, in questi giorni a Milano, ha le idee piuttosto chiare sull'informazione, e sul suo stato attuale: «È più facile definire ciò che è divertimento rispetto all'informazione - dice - Personalmente per informazione intendo tutte quelle notizie utili che devono aggiornare i cittadini di fronte a scelte importanti, che siano politiche, economiche, sociali, nazionali o europee. Il problema è che si è realizzato un mix tra generi, tanto da aver inventato il concetto di "infotainment", a metà strada tra informazione e divertimento, per esempio un articolo sulla vita privata di Renzi che cos'è? Informazione o divertimento?».

A quanto pare molti si illudono che nell'era digitale ci sia maggiore informazione, sottovalutando la qualità delle notizie, come a dire si legge di più, non importa se male…

«Uno dei paradossi attuali è proprio che c'è troppa informazione. In base ai successi di alcuni siti internet che vanno dietro a un payword, ci si rende conto che le persone non vogliono pagare per avere dati più precisi, ma vogliono pagare per averne meno. La gente non ha un tempo illimitato da dedicare all'informazione e quindi il ruolo di un media è quello di fare una selezione, una gerarchia di notizie in modo che in poco tempo si possa accedere a tutte le indicazioni di cui si ha bisogno».

Oggi qualsiasi blogger o ideatore di siti virtuali si definisce giornalista o scrittore, anche senza un tesserino o un libro pubblicato. Non trova che la scrittura sia trattata ormai alla stregua di un hobby e non di una vera e propria disciplina?

«La buona scrittura è indispensabile. Purtroppo siamo invasi da giornalisti che fanno finta di essere giornalisti. Andy Warhol diceva appunto che ognuno cercava il suo momento di gloria. Nel frattempo i giornali veri chiudono e i veri giornalisti vengono licenziati, mentre Internet dà accesso a molti ai loro 15 minuti di celebrità. Tutti hanno l'impressione e l'illusione di essere in contatto con il mondo intero. Questo fa sì che la professione del giornalista sia più importante oggi di un tempo. Bisogna distinguere tra chi è giornalista e chi non lo è. Non lo dico per attaccare i blogger, semplicemente i giornalisti hanno degli obblighi. Devono per esempio rispettare un codice deontologico, morale, legale. Questa è la differenza tra un giornalista e un blogger, uno scarto che si basa sull'idea di impegno e di responsabilità».

Il più grande pericolo per il dibattito democratico all'interno dei media inoltre, è proprio il finanziamento da parte di milionari dalle tasche senza fondo, ma con delle idee ben piantate.

«I milionari sono un pericolo e le cooperative non funzionano. Il punto è che i milionari provengono dall'industria che non ha nulla ha che fare con i media, hanno però la possibilità di comprare strumenti per influenzare l'opinione attraverso i media. E dato che oggi i media sono così poco costosi, tutti i paesi sviluppati o meno assistono all'arrivo di qualche milionario che stacca un assegno da 50 milioni di euro per comprare cose basiche per il buon funzionamento della democrazia».

L'altro pericolo è l'idea utopica di un giornalismo autogestito.

«Le cooperative sono l'estremo opposto, i miliardari posseggono il capitale e quindi ogni potere, dall'altra parte abbiamo le cooperative, cioè un uomo un voto, indipendentemente dal conferimento in capitale. Il motivo per cui le cooperative non hanno funzionato è che hanno sempre ridistribuito i dividendi e non hanno mai investito abbastanza».

Lei propone un modello alternativo di finanziamento e di governance che potrebbe evitare queste due minacce, una forma di democrazia azionaria…

«È un modello che ripensa il rapporto che esiste tra capitale e potere. Sta tra questi due estremi, da un lato un uomo un voto, dall'altro tutti i poteri di voto per coloro che detengono il capitale. A metà strada di questo modello viene limitato il potere dei maggiori azionisti esterni. Al di là del 10% del capitale i diritti di voto aumenteranno soltanto di un terzo rispetto agli altri conferimenti di capitale che possono giungere. Al di sotto del 10% invece, per i piccoli azionisti, ovvero lettori, cittadini o giornalisti, i diritti di voto aumentano più che proporzionalmente rispetto al conferimento. E quindi questo dà maggiori diritti di voto e potere ai piccoli azionisti».

Non è un processo impraticabile, tanto che il gruppo di media Bertelsmann, uno dei maggiori in Europa e al mondo, si è sostenuto, in parte, su questo tipo di operazione.

«Il Gruppo Bertelsmann è un caso interessante, ma è una Fondazione. È vero che i Bertelsmann hanno dato delle azioni ai dipendenti, ma sono azioni prive di voto. Ed è per questo che nel libro sottolineo come il modello della Fondazione non basta, non risolve il problema della governance».

Quali potrebbero esse gli ostacoli per mettere in pratica questo modello?

«La difficoltà principale sarà quella di costringere i gruppi di media a cambiare modello. Potremmo obbligarli a farlo, ma ci vuole maggiore volontà politica, non basta solo creare uno statuto senza scopi di lucro. In Francia ci sono state delle modifiche della legge che vanno verso questo statuto. Lo scoglio principale sarà costringere i grandi gruppi industriali a scegliere questo modello. Il libro in Francia è uscito da un anno e sono abbastanza ottimista a proposito dei nuovi media che, seguendo questo piano, si proteggono dal potere dei maggiori azionisti. Ma modificare il modello dei grandi quotidiani storici nazionali sarà molto difficile».

@Emmebiti

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