La memoria cancellata di chi si trovò in divisa dalla parte dei perdenti

di PAOLO RUMIZ L’Italia non aveva eretto nessun monumento ai 25 mila Caduti austriaci di Trento e Trieste. Roma aveva imboscato gli elenchi dei morti e anche quelli dei cimiteri puntualmente...
Di Paolo Rumiz

di PAOLO RUMIZ

L’Italia non aveva eretto nessun monumento ai 25 mila Caduti austriaci di Trento e Trieste. Roma aveva imboscato gli elenchi dei morti e anche quelli dei cimiteri puntualmente segnalati da Vienna. Così i figli delle mie terre scomparvero senza il conforto di un fiore, un lumino o un nastro annodato a una croce.

Ma ora l'armata-ombra ritornava, rompeva il tabù sulla storia dei vinti. Montagne di documenti uscivano dalle famiglie di Trieste, con un ritardo che diceva tutta la storia del confine. C'era stata la guerra fredda e, col comunismo alle porte, parlare dell'Austria avrebbe messo in discussione l'appartenenza all'Italia. Per questo la rimozione era durata più a lungo che in Trentino, e per questo ora il tappo, saltando, faceva più rumore.

La riscoperta dei dimenticati alimentava una tempesta identitaria che faceva i conti con la delusione dell'oggi, con la marginalità crescente della città "cara al cuore", con i treni cancellati, i cantieri chiusi, le linee di navigazione svendute, lo smantellamento in definitiva di ciò che Vienna aveva costruito con lungimiranza. Nella crisi dell'Italia del Duemila, Trieste rilanciava il mito di un mondo prebellico e felice.

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I soldati italiani d'Austria, con i loro cugini croati e sloveni della costa, mi erano sempre stati dipinti come il paradigma della vigliaccheria e della diserzione, ricettacolo di tutte le infamie militari. L'inno del reggimento 97, specialmente, era entrato nel folclore triestino come la canzone di una banda di lavativi. «Maledetta sia la sveglia / sia la sveglia del mattino / si riposa un pochettino / per marciare un poco ben. Qua se magna, eccetera....».

Poi seppi che il reparto del disonore era stato vittima di una maldicenza. Gli alti comandi di lingua tedesca o ungherese avevano trovato in quell'accozzaglia di adriatici lo scaricabarile dei loro fallimenti. Le armate asburgiche arretravano? Colpa dei triestini o dei trentini, che venivano pesantemente denigrati. Figurarsi cosa accadde quando l'Italia entrò in guerra e la nostra gente divenne il paradigma del tradimento.

Ma ancora peggio fu quando i vincitori, a guerra finita, invece di restituire l'onore a quei ragazzi, adottarono la menzogna del nemico. Non si doveva sapere che migliaia di italiani avevano combattuto per l'Austria con onore. Sarebbe saltato il mito della città oppressa da liberare. E così al ritorno dal fronte o dalla prigionia in Russia, i nostri vennero diffidati a raccontare ciò che avevano vissuto o furono spediti in campi di rieducazione nell'Italia del Centro-Sud. Dopo essere stati troppo italiani per i tedeschi, erano diventati troppo tedeschi per gli italiani.

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(facoltativo, lo dice bene Zeper)

Così l'epopea fu oscurata, ridotta a canzonetta satirica o borbottio clandestino. Si inventò la leggenda dei lavativi, i "pomigadori", detti così dalla pietra pomice di chi lava i piatti in cucina invece di combattere. Nella sua versione dialettale, l'inno del reggimento diceva tra l'altro "Demoghèla", cioè "diamogliela", sottinteso "la fuga" ai nemici. Ma si giocava anche con l'ambiguità di una parola che poteva significare "Diamocela", sottinteso "a gambe". Assalto e fuga nella stesso tempo. Nel dopoguerra si perpetuò solo la seconda versione e la reputazione del Novantasette decadde definitivamente. Gente simile poteva esser solo derisa, non compianta.

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Canneti coperti di brina, laghi, bruma che sfiata dal Baltico. Oggi Tannenberg è Polonia del Nord e ha preso il nome di Olstynek, ma nel 1914 è ancora terra tedesca. Lì avviene il grande scontro campale, la prima e forse l'ultima battaglia di movimento della storia. Poi quasi ovunque sarà paralisi in trincea. I tedeschi vincono sui russi numericamente superiori, ma la storia non è affatto chiusa. In quelle nebbiose brughiere, trovi ancora i fantasmi di una leggenda che dal Medioevo si prolunga fino al grande freddo stalinista e oltre.

Secoli prima su quelle brughiere i cavalieri teutonici erano stati battuti dai polacchi e dai loro alleati, e subito la battaglia del 1914 fu eretta a simbolo di rivincita. A guerra finita Hitler fece costruire un enorme memoriale, in cui pochi anni dopo, nel '34, seppellì solennemente il vincitore di allora, il generale Hindenburg. Ma quando nel '44 i Russi ripresero quei luoghi, il monumento fu fatto saltare in aria dalla Wehrmacht e la salma di Hindenburg venne portata al sicuro in Germania. Ma accadde che a guerra finita i sovietici si servissero di quelle pietre che avevano celebrato il nazismo per costruire uno dei massimi monumento comunisti dell'Est Europa, il torreggiante palazzo della cultura di Varsavia. Insomma, la leggenda di Tannenberg si ostinava a vivere, anche se sotto mentite spoglie.

Accadde poi che nel 2006 un contadino della zona di Olstynek trovò in un cespuglio le mostrine russe di un generale. Erano quelle del comandante in capo dell'esercito dello Zar, e il suo nome era Samsonov. Pare se le fosse tolte, degradandosi da sé, per la rabbia di essere stato sconfitto da un esercito numericamente inferiore. O forse, dicono altri, erano stati i suoi soldati a chiedergli di togliersi quelle rutilanti decorazioni perché troppo visibili alla fucileria germanica.

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(sul treno per Lubiana-Budapest)

Partivo consapevole di affrontare un viaggio nel vuoto. Conoscevo la densità di memorie del fronte occidentale. Libri, diari, lettere, e infinite tracce di scrittori. A Est niente. I tedeschi avevano rimosso la guerra perduta, e con loro gli austro-ungarici, che avevano perso un impero. Sull'altro versante, la ruspa del bolscevismo aveva spianato anche la memoria dei Russi. Ma proprio in questo vuoto le storie di quegli italiani in divisa austriaca, mi erano ancora più care e preziose.

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Canneti, vischio, brughiere. Viaggiavo in una terra segnata da fiumi erranti dove piccole luci disegnavano la topografia dei vivi e dei morti. Il treno andava lento, con mille soste in stazioni sperdute e lo stesso ritmo delle tradotte di allora. In quella terra soffice e stepposa, tempo e spazio cambiavano dimensione. La distanza tra i villaggi aumentava, l'Ungheria era un grande mare buio.

(3 - Segue.

Le puntate precedenti sono state pubblicate il 14 e il 21 luglio)

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