La vita privata dell’eroe ecco come Luc Besson si diverte con il thriller

Il regista di “Nikita” e “Leon” non riesce a evitare stereotipi e si perde in una poco convinta ibridazione di generi
Di Cristina Borsatti

Con “3 Days to Kill” Luc Besson fa l’ennesima incursione nella settima arte (questa volta nel ruolo di sceneggiatore), arruola un maturo Kevin Costner e tenta di mescolare, non riuscendovi completamente, uno spy-thriller con la commedia e il melò. Questa in sintesi la trama, portata sullo schermo da McG, già regista di “Charlie's Angels” e del meno riuscito “Terminator: Salvation”: dopo una vita vissuta sul filo del rasoio, la spia internazionale Ethan Reiner (Kevin Costner) scopre di non avere più molto tempo da vivere e decide di riallacciare i rapporti con una moglie e una figlia tenute sempre a debita distanza per proteggerle dai pericoli connessi al suo lavoro. Ma, prima di raggiungere l’obiettivo, dovrà portare a termine un’ultima missione, catturare il terrorista più pericoloso al mondo. “3 Days to Kill” alterna inseguimenti mozzafiato ai comuni problemi di ogni genitore, regalando a Costner la possibilità di verificare le sue doti di action-hero e di misurarsi contemporaneamente con un universo sentimentale a lui già congeniale.

L’apertura è un teaser, uno scontro a fuoco che mette subito le cose in chiaro, la volontà è quella di girare un film d’azione che smarrisce purtroppo presto le sue priorità, gestendo goffamente la vita privata del suo eroe. Gli stili non si amalgamano, non basta quello e fumettistico di Besson a mitigare prevedibilità e stereotipi ricorrenti. Il tratto del regista di “Nikita”, “Leon” e “Il Quinto elemento” è riconoscibile, eppure si perde dietro una cattiva ibridazione di generi e un autocompiacimento ironico che non sempre viene incanalato nel binario giusto.

È in fondo parodia di se stesso e del filone di appartenenza questo “3 Days to Kill”, sguazza come un fanciullo nelle situazioni strampalate e surreali, torna poi a farsi serio, alternando siparietti anche riusciti alla “Wasabi” con sequenze tese, in stile “Taken”. Né carne né pesce, né azione né commedia ed entrambe al contempo, con una trama a tratti costruita solo per ridare nuova vita a Kevin Costner, cinquantanovenne dal look giovanile (con i suoi immancabili foulard studiatissimi) e dai penetranti occhi azzurri. Ma i problemi sono anche altri, la storia è vista e rivista, così come i personaggi, semplici figurine di carta, e c’è troppa carne al fuoco, troppi ingredienti in pentola. Dall’azione e le sparatorie al rapporto genitoriale, e poi la malattia, la voglia di rimediare, la ricerca di se stessi… Dove il film voglia andare a parare non è chiaro, finisce per perdersi senza approfondire nessuno degli ingredienti messi sul piatto. Da Luc Besson allo script ci si aspettava qualcosa in più, Parigi è sullo sfondo con la sua onnipresente Torre Eiffel e l’idea di mettere in scena un acciaccato cowboy burbero e ligio al dovere era proprio nelle corde del regista francese. Sono suoi “Taken” e “Taken 2”, “Colombiana” e “From Paris with Love”, così come suoi “Taxxi” e “Transporter”, ottimi incassi al botteghino capaci di trasformarsi in vere e proprie saghe. Con tutta probabilità, non sarà questo il destino di “3 Days to Kill”, nonostante le protagoniste femminili, a partire da Hailee Steinfeld (figlia di Ethan), tre anni fa candidata agli Oscar grazie a “Il Grinta”, sino alla provocante femme fatale Amber Heard (qui collega e spia), nel mondo reale futura moglie di Johnny Depp. Nonostante una pubblicità che in questi giorni lo vede interfacciarsi con il tonno, Costner dà il meglio di sé nelle sequenze d’azione, è un ottimo killer spietato e funziona meno come padre amorevole.

Le motivazioni fanno acqua, in cambio della sua ultima collaborazione con la Cia, Ethan riceverà una cura sperimentale per combattere il male che lo sta uccidendo, ma anche le coincidenze più improbabili sembrano poco interessare a questa spy-action-melò-comedy che in fondo non sembra prendersi troppo sul serio. Oggi come ieri, il regista McG predilige toni da commedia, basti pensare al precedente “Una spia non basta”. Lì, però, gli intenti erano dichiarati, qui invece il tragitto è tortuoso, dà la sensazione di non essere stato chiaro neppure ai suoi realizzatori.

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