Pagni sindaco del rione Sanità «Personaggio come Re Lear»

Da domani a Trieste il testo di Eduardo in scena con gli Stabili di Genova e Napoli L’attore: «Oggi il teatro lo fanno tutti, ce n’è troppo. E in giro vedo tanti carciofi»
Di Maria Cristina Vilardo

Un “santo criminale” che anticipa “Il Padrino” di Brando/Coppola, è Don Antonio Barracano per il regista Marco Sciaccaluga. «Fondamentalmente ambiguo, essendo egli insieme un capo camorra e un idealista, una sorta di Robin Hood degli ignoranti; un personaggio la cui grandezza sta proprio nella capacità di mescolare il male e il bene, il positivo e il negativo, l’alto e il basso. In questo senso l’ho messo in scena come uno dei testi più shakespeariani di Eduardo».

Il protagonista della commedia di De Filippo “Il sindaco del rione Sanità” (scritta nel 1960) rivive nell’interpretazione del grande Eros Pagni, nell’allestimento nato in coproduzione fra il Teatro Stabile di Genova e il Teatro Stabile di Napoli. Lo vedremo al Politeama Rossetti mercoledì, alle 20.30, con repliche fino a domenica 28 febbraio.

Dopo il felice debutto estivo al Napoli Teatro Festival nel 2015 e successivamente sullo storico palcoscenico “eduardiano” del Teatro San Ferdinando a Napoli, lo spettacolo ha avuto l’anno scorso tre nomination al premio “Le Maschere del Teatro italiano”, e lo ha vinto Eros Pagni quale miglior attore protagonista (già gli era stato assegnato per “Un nemico del popolo”, “L’ispettore generale” e “Morte di un commesso viaggiatore”, oltre alla Maschera speciale alla carriera nel 2013).

«Innanzi tutto il pensiero principale - spiega Pagni - era quello di distaccarci dal grande drammaturgo e dal grande attore. Rileggendo con attenzione il testo del “Sindaco del rione Sanità”, si riesce a capire che Eduardo non l’ha scritto sulla sua pelle, non l’ha scritto per se stesso, perché la figura di questo piccolo boss mafioso o camorrista mal si concilia con la figura bonaria, paternalistica, semplice di Eduardo De Filippo».

È affine a quale personaggio shakespeariano?

«A Re Lear, vale a dire la vita è una condanna. Si nasce e si piange, si dovrebbe gioire, invece la morte mette la parola fine a una ferita, che è la ferita della vita. La morte è l’unica cosa vera che abbiamo a disposizione, perché non mente mai».

Le sue parole più vibranti?

«Una delle battute più importanti, più cariche di spessore drammaturgico di Antonio Barracano è quando dice: “Sì, io muoio. Rinuncerò per forza ad essere sindaco del rione Sanità, però sappiate che la gente che popola il rione Sanità è gente che va istradata, gente che va protetta”. Parole molto significative, in quanto proteggere vuol dire proteggere un qualcosa che può sbagliare, un qualcosa che può fallire. Antonio Barracano interpreta la giustizia a modo suo, le rimprovera la lentezza, la poca giustizia, per cui agisce secondo il suo criterio, a volte proponendo soluzioni abbastanza discutibili».

Oltre cinquant’anni di sodalizio artistico con il Teatro Stabile di Genova.

«Sono 56 anni, per la precisione. È durato così a lungo perché si è fatto sempre del teatro d’arte, del teatro impegnato, come interessa fare a me. Offerte di lavoro ce ne sono state tante, nell’arco di una carriera come la mia, ma naturalmente si tratta di estrarre dal famoso salvadanaio le cose più buone, le più valide. Non sempre ripagano la fatica che fai, d’altra parte sono nato in un certo modo, non posso cambiare a 77 anni».

Quando avrebbe voluto maggior consenso?

«Qualche mese fa ho interpretato “Minetti” di Thomas Bernhard, uno spettacolo perfettamente riuscito, con un mio contributo più che sufficiente, perché sono un uomo ancora con i piedi in terra, che vive di realtà, non di sogni. Uno spettacolo che purtroppo annoverava sera per sera un centinaio di persone. Mi rendo conto, quale giovane sa oggi chi era Minetti, chi era Ermete Zacconi, chi era Ruggero Ruggeri? Credo che sarò costretto a rinunciare alla ripresa di questo spettacolo, perché nessuno o almeno pochi sanno chi era Minetti».

Il pubblico triestino le piace?

«È un pubblico piuttosto preparato. Quando si rende conto del grande spettacolo, lo manifesta. Io mi ricordo che, quando feci al Politeama “Morte di un commesso viaggiatore”, ha tributato un successo notevole. Questo fa parte di una certa cultura di pubblico che i triestini posseggono».

È vero che, se non fosse diventato attore, l’aspettava il mare?

«Verissimo! Siccome non promettevo bene, mi ero fatto il libretto di navigazione, pronto per imbarcarmi. Si parla di quando avevo quindici o sedici anni. Ma il Padreterno mi ha dato questa chance».

Come sta il teatro?

«Oggi il teatro lo fanno tutti, e forse ce n’è un po’ troppo. Bisognerebbe farne meno e bisognerebbe farlo meglio. Anche mia figlia voleva fare teatro, e io le feci leggere un piccolo articolo del Corriere della Sera dicendole: “Pensa all’università, a medicina!”. Adesso è medico. Ho salvato il teatro da un ulteriore carciofo. Oggi ce ne sono tanti, c’è una coltivazione planetaria di carciofi, dei quali ci nutriamo e andiamo avanti così. Non voglio fare nomi perché riempirei delle pagine».

Ai giovani attori lei ha consigliato il silenzio.

«Silenzio è sinonimo di modestia, pazienza e sacrificio. Oggi è difficile incontrarli nei giovani. Vogliono tutto e subito, proprio il contrario di come ci si può creare un certo bagaglio professionale. Il bagaglio professionale non c’è più, perché difficilmente trovi un giovane che ami la musica, che sia intonato, che sappia cantare, che sappia suonare qualche strumento, che sappia ballare. Sono tutte prerogative, situazioni esistenziali delle quali l’attore dovrebbe essere provvisto. Di tutto questo non si parla mai, non sembra avere importanza».

Molti hanno voluto ricordare Ettore Scola, quando è scomparso.

«Ho lavorato anch’io con lui. Grande uomo di cinema, ma prima di tutto un grande uomo, un padre di famiglia, un uomo vero, importante umanamente parlando, di grande spessore, al di là del regista».

Perché vive nella campagna toscana?

«Perché amo la terra, l’orto. Amo le cose vere, che posso toccare e posso capire».

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