Quando Dante scese in campo per difendere il volgare italiano

Da “Venuti a galla” di Boris Pahor pubblichiamo l’inizio di “Dalla comunità etnico-linguistica alla Federazione europea”, per gentile concessione della casa editrice Diabasis.
di BORIS PAHOR
Credo sia opportuno che, già come preambolo, io precisi come queste mie note non sono indirizzate ai convertiti, diciamo così, alla valorizzazione del problema etnico, etnico-linguistico o nazionale. Allo stuolo di studiosi, di attivisti, di veri apostoli che in questi ultimi anni hanno dedicato il meglio di se stessi per riportare alla luce ciò che fa parte del “minus valore” come bene ebbe a definirlo Barbiellini Amidei. A tutti costoro io certamente non avrei da offrire delle rivelazioni inaspettate. Vorrei riuscire, invece, a esporre qualche verità che serva a convertire gli increduli o almeno a confermare gli indecisi. E, dato che il problema, precipuamente economico o sociale, è tuttavia necessariamente psicologico, forse non sarà male rifarsi alle tesi dell’Alighieri che hanno un’anzianità di quasi sette secoli, giacché il “Convivio” è del 1307 e cade proprio in quest’anno il 670° anniversario della sua composizione.
Nell’enumerare i fattori caratteriali che inducono le persone a preferire un’altra lingua al posto di quella materna, Dante mette al primo posto la «cecità di discrezione» o, diremmo oggi, la capacità di discernimento: la gente, egli dice, ha altro da fare e non è preparata a discutere di cose astratte. Continuando, Dante, trova che molti preferiscono il provenzale all’italiano semplicemente perché dichiarano il primo migliore del secondo. Seguono a questi coloro che vogliono far bella mostra adoperando una lingua che non è la loro, e poi quelli che accusano il proprio parlare di essere brutto mentre sono loro che lo parlano male. Infine Dante riunisce tutte queste categorie in quella quinta, cioè dei vili che rappresentano il sottofondo anche delle altre.
E qui Dante esce in quella apostrofe che conoscete: «E tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi d’Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, s’è vile in alcuna cosa, non è se non in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri» (Convivio, Trattato i, cap. xi).
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