Sulle tracce di Parise sentendo l’odore del sangue del suo fascista senza nome

Andrea Tarabbia ne “Il Continente bianco” (Bollati Boringhieri) riprende l’opera rimasta incompiuta dell’autore veneto

Federica Manzon

TRIESTE. Che si possa compiere il male e mentre lo si compie pensare anche a qualcosa che si ama, “che ci possa essere levità, e risa, e gioia, in chi compie qualcosa che per noi è orribile e violento”, è uno dei punti oscuri dell’esistenza, cuore della ricerca letteraria di Andrea Tarabbia. Che si tratti di entrare nella testa di un terrorista, di raccontare un assassino mostruoso o un compositore divorato dai demoni (come in “Madrigale senza suono”, vincitore del Premio Campiello), Tarabbia ha sempre guardato a personaggi e momenti della Storia in cui il mondo si storce, si piega alla violenza o alla paura, perché da lì l’essenza scandalosa dell’umano emerge con prepotenza e nitore.

Così accade anche nell’ultimo romanzo, al contempo scatto in avanti e sintesi di un percorso letterario, “Il Continente bianco” appena pubblicato da Bollati Boringhieri (pp. 252, euro 16). È la cronaca dei giorni in cui il narratore, che si chiama come l’autore e in molto gli somiglia, entra in contatto con il Continente bianco, un’organizzazione neofascista che si addestra all’arrivo di una nuova guerra. In una Roma di edifici occupati, campi rom, betoniere e groppi di cavi, una città “che si porta addosso qualcosa di perennemente funebre, come se fosse condannata a morire domani e domani invece non muore”, lo scrittore incontra Marcello Croce: un fascista, un’anima giovane, bello come un Cristo e prepotente come un ragazzino. Personaggio sgusciante, animato di un’energia quasi esoterica, Croce arriva da uno dei romanzi più perturbanti della letteratura italiana del secondo Novecento, quell’“Odore del sangue” che Goffredo Parise lasciò incompiuto, chiuso in cassaforte, pubblicato postumo.

Se il cuore nero in Parise è la caduta nell’abisso di Silvia, donna della buona borghesia romana, sedotta fino alla dissipazione di sé da un giovane fascista senza nome, il punto cieco per Tarabbia è proprio quel ragazzo. Gli dà un nome, Marcello Croce, e un destino, quello di leader del Continente Bianco. Indagare la sua vita, la relazione dispotica e disperata con Silvia, la violenza priva di senso che lo porta quasi ad ammazzare un uomo per poi correre da lei a farsi bello, diventa per il narratore il modo per venire a capo anche della propria storia.

Perché a volte le cose terribili ci affascinano? Perché ci leghiamo a chi ci trascina nell’abisso? Perché la violenza ci attrae e questa attrazione ci spaventa tanto? Tarabbia insegue queste domande frugando nell’animo di Marcello Croce, nelle azioni soprattutto. Le pagine di Parise, ma anche di Malaparte, di Pratolini, e di Dostoevskij naturalmente, sono armi con cui avanzare nei sentimenti bui e profondi, ma non bastano. Come forse solo nel precedente “Demone a Beslan”, Tarabbia sente che per “dare una forma e, perché no, una bellezza a fatti orrendi” è necessario andare fuori, nel mondo brutale dei neofascisti d’Europa, e bisogna farlo mettendo a rischio se stessi e gli altri.

Ne esce un romanzo vivo e spaventoso. Come lo sono le sortite dei ragazzi del Continente bianco, educati al culto confuso del Duce, di Mishima, di Breivik, che si preparano alla guerra pestando i bengalesi perché sono i più docili. Come lo è l’amore di Silvia per Croce. E se l’odore del sangue in Parise è quello del sesso e del desiderio, della vita, in Tarabbia è quello delle risse, dei macelli, della morte. O forse, più profondamente e per entrambi, l’odore del sangue è al tempo stesso quello del desiderio e della morte, della vita e del macello, come per tutti noi del resto. Tarabbia non trae conclusioni, non spiega le ragioni del Male e del suo fascino, perché spesso non ce ne sono e quando lo incontriamo non possiamo fare altro che seguire il nostro destino. Oppure possiamo provare a placare quella serpe che striscia e guizza dentro di noi, a questo in fondo servono i libri, la letteratura.

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