BALOTELLI, E L’AUTOGOL RAZZISMO
Detto questo – e aggiunta ogni considerazione calcistica possibile sul fatto che sia stato forse sopravvalutato, che Prandelli abbia sbagliato a puntare su di lui, e così via – vorrei dire due cose sul tema “nero italiano”. Anzi, “negro”, come ha scritto Mario su Facebook, nel suo sfogo a caldo.
La vulgata di queste ore, condivisa da tutti i commentatori, è che Balotelli stia facendo il furbetto e la vittima, sviando le critiche sul razzismo, e che dovrebbe separare i piani.
Contemporaneamente, molti di quelli che gli rinfacciano il vittimismo pensano pure (e talvolta hanno anche il coraggio di scriverlo, come ha fatto Alberto Ferrarini, il motivatore di Bonucci) che Mario debba tutto al suo essere nero: se fosse stato bianco, nel calcio non avrebbe avuto così successo, perché sarebbe stato considerato uno come tanti. Mio padre utilizza lo stesso criterio per i biondi: quando ero piccolo, ad esempio, diceva che se Massimo Bonini fosse stato castano non avrebbe mai giocato nella Juve, ma essendo biondo tutti lo notavano. Ora però si parla di colore della pelle, e quindi scatta il politically correct, e quindi si pensa ma non si dice, eccetera eccetera. Oppure si dice un po’ di nascosto, come ha fatto un deputato di destra che ho incrociato in Transatlantico: puntare su Balotelli – mi spiegava – era un’operazione di immagine per far diventare eroe un negro (testuale) italiano di seconda generazione, con tutto il conseguente can can mediatico.
La tesi appare piuttosto opinabile, e forse non merita neppure approfondimenti, ma il punto è un altro: se Prandelli avesse insistito su Immobile, contro ogni speranza, qualcuno avrebbe mai pensato a un’operazione per favorire i napoletani? No, perché Immobile – biondo e bianco – ha il lusso, e lo ha sempre avuto, di essere giudicato solo per le sue prestazioni in campo, come è normale che sia. Balotelli, invece, no, e dall’inizio della sua carriera si porta dietro una valigia con il doppiofondo: in superficie le legittime critiche tecniche o comportamentali, più sotto quelle sulle sue origini, dal «non esistono negri italiani» in poi.
Ogni persona è diversa dall’altra: c’è chi ci passa sopra come il ciociaro Ogbonna, c’è chi ci soffre come il bresciano Balotelli. Ma il fatto che uno soffra o meno di fronte a questi insulti – e che li tiri fuori nel momento di difficoltà più profonda – non può essere, a sua volta, un motivo stesso di insulto: crescere con la sensazione di essere diverso dalla massa, perché la massa non smette mai di ricordartelo (e talvolta di rinfacciartelo), ti resta dentro. Nelle reazioni, più che nelle azioni, vengono fuori i fantasmi. Ma non c’è un commentatore, uno solo, che si chieda il perché di quei fantasmi. Non ce n’è uno che riconosca la difficoltà del crescere in una terra di mezzo, come ponte tra due culture, in un Paese che ancora non lo capisce.
Si potrebbe proseguire a lungo sul tema delle seconde generazioni, e magari parlare ancora di riforma della legge sulla cittadinanza.
Ma invece di buttarla in politica basta tornare con la mente alla rivolta delle banlieues, le periferie francesi: quando un pezzo del Paese si sente escluso, perché diverso, la tentazione più forte è quella di rifugiarsi nell’altra metà del proprio cuore, nel porto sicuro della propria appartenenza di sangue. E parlare, magari a sproposito, dei «fratelli africani, che non mi avrebbero mai tradito», rischiando di dare improvvisamente ragione a tutti quelli che, da quando sei piccolo, non ti hanno mai considerato fino in fondo uno di loro.
Andrea Sarubbi
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