Djokovic deve abdicare. Murray è il re di Roma

Vittoria in soli due set per lo scozzese contro il numero uno. Serena Williams supera Madison Keys
Di Claudio Giua
Andy Murray. ANSA/CLAUDIO ONORATI
Andy Murray. ANSA/CLAUDIO ONORATI

ROMA. Dopo undici anni s'interrompe il duopolio di Rafael Nadal e Novak Djokovic, abituati dal 2005 a scambiarsi la corona di re di Roma sul Centrale del Foro Italico. Il nuovo corrispettivo tennistico di Francesco Totti è Andy Murray, da domani numero 2 della classifica ATP. Domenica scorsa nella finale del Masters madrileno il serbo numero 1 al mondo aveva sofferto per sconfiggere lo scozzese in tre set (6-2 3-6 6-3), ieri Andy ha sofferto poco e vinto facilmente in due set (6-3 6-3). Il ribaltamento di ruoli è conseguenza diretta a due accadimenti che si sono combinati negli ultimi giorni. Il primo è frutto di un processo cominciato molto tempo fa: l'uomo che odiava la terra fino al 4 maggio 2015 (giorno del suo primo successo "rosso" a Monaco di Baviera con Philipp Kohlschreiber, bissato la domenica successiva a Madrid con Nadal) è ora consapevole che nel Risiko tennistico globale i suoi territori non sono necessariamente solo coperti d'erba verde o di sintetico multicolore. Il secondo accadimento è conseguenza diretta del sorteggio per il tabellone degli Internazionali che ha riservato a Murray avversari di scarso peso mentre Djokovic ha penato negli ottavi con Thomaz Bellucci, nei quarti con Nadal e soprattutto nella semifinale con Kei Nishikori, finita sabato in tardissima serata. A tutti, ieri, Nole è apparso sfinito. La semifinale di Andy era invece stata giocata nel pomeriggio contro l'inconsistente avversario Lucas Pouille.

Una sconfitta, quella del serbo, che si palesa quasi subito. Il numero 1 al mondo è lento e impreciso, il numero 2 è veloce ed efficace. I primi due game portano via 15 minuti, gli altri sette se ne prendono 29 e confermano nel punteggio, 6-3, la distanza che separa Murray da Djokovic. Il secondo set si sblocca sul 2 pari quando lo scozzese strappa il break. Poi la partita non ha più storia.

Non è epica né indimenticabile la finale tra Serena Williams e Madison Keys. Nonostante il blasone della numero 1 WTA e la voglia di emergere della numero 17 (da domani) il match è la fiera degli errori possibili e impossibili tra i quali trovano spazio rari intermezzi di gioco. Serena è poco mobile, reagisce in ritardo, è prevedibile, non riesce a trovare gli "strettini" che di solito le fruttano quindici a grappoli. Soprattutto, è fallosa: non riuscendo ad anticipare, spesso colpisce quando la palla è bassa e l'affonda a rete. Si affida al servizio, peraltro poco incisivo. Madison, all'inizio, è tutta un'altra storia. Sfoggia un servizio tanto potente da mettere a segno tre ace dopo avere ottenuto il break a zero in apertura. Ha un diritto piatto scolastico e un rovescio a due mani che fa male.

Ma il campione è quello che non si fa staccare nemmeno sulla salita più dura, che combatte e, alla fine, fa tesoro di un punticino o due sottratti all'avversario. Così va nel primo set, che Serena vince al tie break. Il secondo set è per lei una passeggiata, deve solo preoccuparsi di sbagliare di meno e di tenere a debita distanza Keys. Il 6-3 arriva dopo 1 ora e 23 minuiti e sancisce il diritto di Serena di appuntarsi al petto la quarta medaglia al valore del Foro Italico. Non vinceva un torneo da Cincinnati, agosto 2015. Da oggi forse riprenderà a credere nei propri mezzi, come aveva fatto fino alla storica sconfitta per mano di Roberta Vinci a Flushing Meadows.

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