E il sogno divenne incubo

Sognavamo a occhi aperti, sgranati come quelli di Totò Schillaci, riserva azzurra diventata in un amen l’uomo della speranza, quello che vincerà la classifica marcatori ma non riuscirà a regalarci la quarta, attesissima stella.
Era il Mondiale italiano, quello delle notti magiche cantate in tandem da Gianna Nannini ed Edoardo Bennato, voci italiane della splendida colonna sonora di Giorgio Moroder “To be number one”. Era il 1990, 24 anni fa, eppure era l’anno del primo telefonino, una mezza valigetta. Ne dettero uno a tutti gli azzurri, di quei telefonini, e per chiamarli per un’intervista occorreva una mezza borsata di gettoni telefonici (oggi non esistono neanche più...), tanto costose erano le chiamate dai telefoni fissi. Finimmo terzi, alla fine di un salmo che già durante le prime fasi offrì qualche palpitazione più per gli altri che per noi: fuori la Francia di Michel Platini; prima escluso e poi riabilitato il Brasile, riconosciuto vittima di truffa da parte del Cile (il portiere Roberto Royas non abbattuto in azione ma autoferitosi al sopracciglio con un bisturi).
Vinse la Germania nella finale con l’Argentina, uscita indenne dalla prima fase per il ripescaggio come migliore terza (in un girone di quattro). La preparazione fu infinita e oltretutto allungata nel tempo anche per gli errori compiuti nella costruzione di nuovi stadi, soprattutto il Delle Alpi a Torino e il San Nicola a Bari. Ma anche nella ristrutturazione di vecchi impianti. Quasi sempre soldi buttati.
Ci mancò veramente un soffio per arrivare al trionfo. E questo nonostante la gestione sbagliata del gruppo da parte di Azeglio Vicini. Cominciammo con un girone senza sussulti: tre vittorie con Austria (1-0, Schillaci), Usa (1-0, Giuseppe Giannini) e Cecoslovacchia (2-0, Schillaci e Roberto Baggio). Con Gianluca Vialli e Andrea Carnevale immusoniti per lo spazio loro sottratto da Schillaci, lo spogliatoio era già saltato. Andò ancor peggio quando Carlo Ancelotti finì per ingelosire il ct che non gradiva di sentirlo definire allenatore in campo. Negli ottavi battemmo l’Uruguay (2-0, Schillaci e Giannini), nei quarti (ancora Schillaci) facemmo fuori l’Irlanda ma il peggio arrivò nella semifinale con l’Argentina, in una Napoli che si divise fra Italia e Diego Armando Maradona. Pur giocando senza Roby Baggio, eravamo andati in gol con Schillaci ma subimmo l’uscita a vuoto di Walter Zenga e l’inzuccata di Claudio Caniggia. Fu l’unico errore del portiere, imbattuto fino a quel momento, ma lo pagammo carissimo. Arrivarono supplementari e rigori: con le parate di Sergio Goycochea su Roberto Donadoni e Aldo Serena, non ci restò che piangere. Il 2-1 agli inglesi (Baggio-Schillaci), per il terzo posto? Un contentino.
E infatti, il giorno dopo all’Olimpico, Germania campione sull’Argentina (1-0, rigore di Andreas Brehme) per le lacrime di un Maradona che si ribellò ai fischi al suo inno, ci furono più applausi per la rivelazione Camerun (fuori ai quarti) che per noi. Con tanti rimpianti per quel che poteva essere e che purtroppo non fu.
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