«Sarà battaglia ma siamo pronti a soffrire»
di Alessandro Cecioni
Il piano di gioco tutti lo hanno chiaro in mente, gira intorno a tre parole chiave: battaglia (sui punti di incontro), placcaggi e disciplina. «Che poi è quasi un ossimoro disciplina quando si chiama alla battaglia in maul e ruck» dice Maxime Mata Mbandà, quarta presenza in azzurro, prima nel Sei Nazioni che del rugby è il palcoscenico più prestigioso. Lui lo sa bene quanto sarà difficile tenere insieme disciplina e aggressività perché, anche se dice che «non si può svelare il piano di gioco», il suo compito è chiaro e si racchiude in un neologismo coniato una decina di anni fa da Vittorio Munari e Antonio Raimondi, oggi telecronisti per DMax e allora a Sky: grillotalpa. Ovvero colui che con sprezzo del pericolo mette le mani dove altri avrebbero paura a mettere i piedi e prova a strappare all’avversario il pallone.
MBandà gioca come terza linea, il padre è un chirurgo, gli ha insegnato la passione per la scienza, così aveva deciso di fare Ingegneria biomedica a Pisa, poi però ha deciso di abbandonare, troppo lontana da Parma dove gioca nelle Zebre, «troppo l’impegno del rugby. Ora sono a Scienze motorie». Appare un freddo, ma svela che invece l’ansia della partita si fa sentire tanto che ha un mental trainer, Roberto Lorenzani, con cui si sente via Skype quando è in ritiro. «Come si vince la tensione? Focalizzando lo sviluppo della partita, immaginando quello che avverà». E che avverrà? Sorriso: «No, ma allora, il piano di gioco non ve lo posso dire».
È stato anche capitano nelle Zebre, come lo era stato nel minirugby, nell’Under18 e poi nell’Under20. «Un leader? Ce ne sono molti migliori di me in campo, con più esperienza, certo però che essere un leader significa aiutare chi è in difficoltà in un momento cruciale quello lo faccio, certo».
Se parli di disciplina come chiave del match è perché il Galles ha due calciatori che non perdonano, Biggar e Halfpenny, George Biagi non riesce a trattenere un sorrisino. «Ci aspetta una bella battaglia, queste regole sul placcaggio alto potrebbero portare a calci di punizione. Sarà dura, ma non ci sono alternative con una squadra come il Galles. Cosa mi ha insegnato giocare ad alto livello? Invecchiando si diventa più saggi, quindi un uso più intelligente delle forze, comprendere prima quale può essere lo sviluppo del gioco».
Di solito Biagi spinge su Lorenzo Cittadini, domani spingerà su Andrea Lovotti, pilone sinistro. Di lui Conor O’Shea, ct azzurro, ha detto che può diventare uno dei primi al mondo nel suo ruolo, lo stesso che fu in passato di Andrea Lo Cicero e Salvatore Perugini. «Non ho mai giocato con loro, ma sono stati dei grandi», dice. E non è piaggeria, il mestiere di pilone è scienza che si tramanda anche se le regole cambiano. «Penso che quest’anno gli arbitri saranno molto attenti alla stabilità», spiega. Il 5 febbraio del 2000 Lovotti aveva 11 anni e ancora non si era avvicinato al rugby, non si ricorda la storica vittoria con la Scozia al Flaminio, forse, ma glissa, ne ha visti i momenti salienti su youtube. Al rugby è arrivato attraverso gli studenteschi, poi è andato al campo per far sul serio, aveva 12 anni.
Guardi la linea arretrata del Galles, Halfpenny, Davies, i due Williams, Biggar e ti immagini grandi calci di spostamento, calci passaggi sulle ali, calci di Biggar per se stesso, un incubo per tre-quarti ala e estremo. Edoardo Padovani ha giocato in nazionale sei volte, tre da apertura e tre, contro gli All Blacks la prima e contro Sudafrica e Tonga le altre, da estremo. «Mi trovo bene in questo ruolo, mi sono molto allenato alle Zebre sui palloni alti, e anche qui ci abbiamo dedicato molto tempo. Il problema sarà capire chi calcia e quando, se Biggar o Davies che è mancino e può incrociare. Non una partita semplice. Ma ne esistono?».
È un altro “figlio del Sei Nazioni”, ha iniziato a giocare nel 2000, aveva sette anni, la squadra era il Mogliano, fra i suoi compagni c’era l’azzurro Tommaso Boni, «siamo amici da sempre». «All’inizio ho giocato mediano di mischia, poi nell’Under18 del Mogliano estremo, ma quando ho esordito in prima squadra ero diventato apertura. Mogliano, sì, la squadra dove ha giocato anche mio padre. Caratteristiche irrinunciabili per un estremo? Presa al volo, soprattutto sulle palle su cui bisogna saltare. Poi reattività e voglia di sfidare l’avversario, gambe e velocità. Infine uso del piede».
Calci-passaggio sull’ala, due mastini come Williams e North a prendere i palloni. «Mi toccherà Williams, ma io avrei quasi preferito North», dice Giulio Bisegni nato centro e nei match in nazionale schierato soprattutto all’ala. «Perché sai come sfidarlo, Liam Williams è elettrico sulle gambe, una bella rogna. Ma ci siamo allenati bene, siamo fiduciosi».
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