POLITICAMENTE SCORRETTO

«Scusate per l’intervallo». Non l’ha usato, ma poteva essere lo slogan, il messaggio elettorale di Berlusconi. Anzi lo è, il resto è contorno. «Riprendo dopo l’interruzione» è il suo vero argomento, la sua forza, l’essenza dell’immagine proposta a chi lo vota e da questi raccolta. «Io, l’infungibile»: tasso di gradimento alto anche se non travolgente, il messaggio è a misura del sentimento maggioritario. Sentimento maggioritario e trasversale che aspira a una comoda uscita dalla crisi facendo un passo indietro, ad appena ieri, quando la crisi non c’era. O almeno non c’era nella labile memoria collettiva. Un po’ di «si stava meglio quando si stava peggio», un tanto di rancore anti Prodi, un molto di esorcismo verso "diabolici" guai troppo complessi per essere accettati come eventi naturali da inserire nella quotidianeità. È fatto così il triciclo di pubblica opinione su cui il messaggio elettorale di Berlusconi si siede, accomoda e muove.


Teoria politologica e anche banale buon senso vogliono che si voti in conseguenza e in forma del prevalere in ciascun elettore di uno dei tre atteggiamenti mentali possibili: retrospettivo, identitario o proiettivo. Cioè valutando, rivalutando o anche sognando il passato, oppure cercando qui e adesso il proprio simile, o infine programmando, soppesando, rischiando il futuro. Il Berlusconi che si propose nel 1994 fu fortemente se non esclusivamente "proiettivo", quello del 2001 fu "proiettivo" e "identitario" almeno in parti uguali, nel 2006 fu principalmente "identitario", oggi è per due terzi "retrospettivo" e per il resto "identitario". Per questo gli esperti della politica non lo afferrano mai, perchè lui muta e loro cercano quasi regolarmente il Berlusconi che non c’è. Un po’ "identitario" Berlusconi si propone ancora: contro i comunisti, per Dio, Patria e Famiglia, se stesso come deus ex machina, quello che risolve perchè lui è lui. Ma soprattutto si offre come "retrospettivo", cioè capace di depennare dall’agenda della vita vissuta tutto ciò che di fastidioso in quell’agenda si è stampato, in primo luogo l’inadeguatezza complessiva del sistema Italia al mondo contemporaneo.


Con Berlusconi l’Italia non deve cambiare pelle, deve infatti solo "rialzarsi" e può farlo così com’è, così com’è fatta. Al netto del suo sopravvalutato peso elettorale, la vicenda Alitalia è davvero emblematica: Berlusconi è il capo-cordata non di chi compra l’azienda ma di chi, e sono tanti, vuole che l’azienda resti più o meno quel che è e ciononostante, anzi proprio per questo, voli, e voli meglio. Sostituite Italia ad Alitalia e avrete il messaggio. Rassicurante, consolatorio, a suo modo irresistibile. Veltroni invece è "proiettivo" al massimo. Non può essere "identitario" senza vagolare nel vago e avendo rinunciato alla identità di panna montata e, alla lunga, acida dell’anti-berlusconismo. Non può essere "retrospettivo" senza inciampare nel rovinoso e fresco ricordo dell’Unione di centrosinistra, la coalizione venuta in terra a certezza mostrare di non poter governare. Il messaggio elettorale di Veltroni è tutto in quel "Io vado solo" che è, ha il suono forte e liberatorio di un "Basta". Un non se ne può più, però colto, moderno, pratico. Un finalmente chiamare alla conta i riformisti di questo Paese, dovunque siano. Se ci sono. Storicamente una conta che è sempre finita con un risultato di minoranza. Ma in prospettiva, in "proiezione", l’unica conta che conta.


Non l’ha detto e non direbbe mai, ma Veltroni manda a dire che, quand’anche l’oggi fosse di Berlusconi, il domani non può che essere del riformismo. Perchè l’Italia deve essere rifatta, questo è quel che "si può fare". Avvicinare quel domani dipende dall’oggi, anche se l’oggi dovesse finire, come probabile, con qualche voto in meno. Poi c’è Casini, l’infuriato. Lo "svelatore" di Berlusconi inaffidabile e pericoloso. Il nobile cavaliere che scopre despota il sovrano che ha a lungo servito. È questa l’immagine che ha scelto e la porta in giro con foga. Ma sa di avere un fianco debole ed esposto: 15 anni, cavaliere senza macchia, per accorgersi che Berlusconi non era re Artù? E quindi Casini prova a puntellare la sua proposta con un po’ di "identità". Cattolica. E a insaporirla con un granello di "proiezione": guardate che serve un ago della bilancia. Se Berlusconi è il papà un po’ fanfarone che racconta la favola bella che alla fine tutto si aggiusta e nessuno si fa male, se Veltroni è il fratello che tenta e spaventa dicendo di raggiungerlo all’estero, fuori dai confini delle vecchie abitudini, tanto care, quanto soffocanti, se Casini è il cugino pure simpatico mentre rompe i piatti ma tutti sanno che lo fa perchè gli hanno cambiato il posto in tavola, Bertinotti è il nonno. Quello del buon tempo antico. Non l’ieri di Berlusconi.


Un po’ più in là: il tempo quando c’erano gli operai che lottavano per un mondo migliore lottando per il salario ed era la stessa cosa, quando c’erano i sindacati che ti garantivano le ferie e non l’assenteismo, quando c’era la scala mobile che non faceva inflazione ma aiutava a pagare le rate, quando il capitalismo erano i ricchi che insomma un cappello a cilindro sia pur nell’armadio ce l’avevano eccome. Quando i campi erano verdi, il latte bollito appena dopo munto e il grano e il petrolio aumentavano per colpa degli accaparratori e degli sceicchi e non perchè miliardi di umani che prima non lo facevano mangiano e vanno in auto. Il messaggio di Bertinotti è appunto il messaggio che ogni nonno dà: limita i danni della modernità. Molti nonni lo fanno per ruolo, anche se la modernità non dispiace loro. Bertinotti e la sua Sinistra lo fanno perchè hanno genuino dispetto per il tempo in cui vivono. E poi c’è la zia, anzi una riedizione un po’ attempata della protagonista di un vecchio film dal titolo "Grazie, zia". La zia, un po’ frustino e corpetto, un po’ fard e atelier, è la Santanchè. Il messaggio è quello di un fascismo estetico prima ancora che politico: i "calci in culo" alle banche e agli immigrati, la "donna con le palle" che poi, se esistesse davvero, sarebbe uno scherzo di natura. La zia insomma che la vita è una guerra e vince chi picchia più forte e, se capita, anche un po’ alla cieca, che non fa mai male. Più defilati, Di Pietro un po’ sceriffo come sempre. Boselli che si è ritagliato la parte della vittima ma ha incartato in confezione un’abbondante petulanza, l’impenitente Ferrara che comanda penitenza agli uomini e soprattutto alle donne in terra. Tutti più o meno protagonisti di uno spettacolo, perchè la campagna elettorale spettacolo è. E, per giudicarlo e capirlo, non fidarsi dei critici di professione, come, quando scegliete un film, mai seguire le recensioni o meglio seguirle a rovescio. Lo spettacolo lo si capisce dal pubblico, è lui che detta le regole. E il pubblico ha esentato tutti gli attori dal canone della responsabilità. Non c’è obbliogo di coerenza o congruenza nei testi e nelle scenografie, il pubblico non lo esige. Abolito, non richiesto anche il canone del politicamente corretto: la giovane pupilla di Veltroni può celebrare l’elogio dell’inattitudine, Berlusconi può indicare un settore di una platea femminile come "l’angolo della menopausa", dichiarere "irregolari" le schede e pure le elezioni se non le vince lui, Guzzanti e Dini possono stare insieme nella stessa lista dopo essersi reciprocamente scannati su Telekom-Serbia.


Bossi può fare lo "straniero" nato suo malgrado in Italia. Veltroni può vendere una rimonta che c’è al prezzo, maggiorato e indebito, di un sorpasso che proprio non si vede. Il pubblico tollera, anzi apprezza l’avanspettacolo, ama, comunque non punisce il macchiettismo. Un po’ perchè saggiamente sa che non si sta mettendo in scena Shakespeare, molto perchè è un pubblico triste. Triste, non annoiato come dicono sia la campagna elettorale. Che noiosa non è, è solo la miglior campagna elettorale possibile in un paese stanco, lento e viziato.

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