Bartolomè, “clic” da esule a Melbourne

di Nereo Balanzin
TRIESTE
Ciascuno dei fotografi che, questo fine settimana, farà tappa a Phillip Island per il Gran premio d'Australia del Motomondiale, scatterà tra le 10 e le 12mila foto, utilizzando almeno cinque o sei obiettivi di focale diversa e portando in spalla due corpi macchina capaci di gelare l'immagine a un millesimo di secondo. Si può fare con meno? Sì ma non di molto, perché anche per i dilettanti l'asticella (come si suol dire) oggi è altissima.
«Ma i nostri erano altri tempi. E noi eravamo “funny bastards”, ragazzotti che cercavano il divertimento in ogni cosa, anche quando era impossibile» dice Pino Bartolomè, 75 anni. Viene da Fiume; è sbarcato a Melbourne poco più che bambino. Portava con sé documenti in parte con timbri col fascio littorio, in parte con falce e martello. I funzionari australiani faticavano a capire. «Forse era il ’54 quando, con un amico - racconta - ho iniziato a battere i circuiti alle porte di Melbourne. Ci andavano in bicicletta, lungo strade che portavano a Fishermans Bend, accanto al porto. O ad Albert Park, dove oggi corre la F1 e a quei tempi accoglieva a braccia aperte il grande “Duke” su Gilera, con i formidabili rivali su Norton e Guzzi. E le auto: le Maserati di Moss e Hunt; la Ferrari di Davison». «La mia macchina fotografica - sottolinea - era una Paxette 35 millimetri. Velocità massima, 1/300 di secondo. Dovevo scattare prima che l'auto o la moto arrivassero alla mia altezza e sperare di aver calcolato bene il tempo». Quando lo calcolava male, la foto risultava vuota. Quando lo calcolava bene, spesso era mossa. Quando non era mossa, il soggetto magari era appena un puntino all'orizzonte. A complicare la vita, il fatto che l'ingranditore per stampare l’avessero costruito loro: «Il corpo era un bidone che in precedenza aveva contenuto olio di oliva; il soffietto, era stato ritagliato con cartoncino nero. L'obiettivo era lo stesso della macchina fotografica: veniva smontato da questa e rimontato sull'ingranditore. La regolazione dell'altezza era a spago: “ierimo con le scarsele svode”». La camera oscura stava un bugigattolo sul retro. La polvere non era un problema: a nessuno sarebbe mai venuto in mente che potesse esistere al mondo un modo per neutralizzarla. La polvere, e le mosche.
«Arrivammo in Australia come “displaced persons” (profughi) dopo un lungo tour attraverso i campi di raccolta di mezza Italia» aggiunge. La Jugoslavia li aveva cacciati («Siamo partiti, come tutti, poco prima della mezzanotte perché le autorità volevano mascherare le dimensioni dell'esodo») e l'Italia li aveva accolti con molte riserve.
E l'Australia, appena sbarcati, aveva impartito una lezione di geografia e scienze facendo conoscere, in altri campi di raccolta, l'isolamento in grandi spazi, il freddo pungente della notte e il caldo cocente del giorno ai bordi del niente. Ma anche i primi maestosi spettacoli di un continente selvaggio: «Il sole che sorgeva sulla terra rossa e le pietre del deserto. Era facile incrociare serpenti e ragni velenosi fuori dalla porta. Bisognava stare attenti». Bonegilla, uno dei luoghi di raccolta, era così vasto che la gente veniva trasferita da un gruppo di baracche all'alto in bus. Chi era abile al lavoro, era invitato a salire su una pedana e chi aveva bisogno di manodopera sceglieva. Dalla sua radio l'Australia gli è arrivata alle orecchie con una lingua incomprensibile, comportamenti incomprensibili («a volte con gli australiani finiva a cazzotti») cibo insopportabile («ricordo la grande vittoria ottenendo che la smettessero con la carne di montone tutti i giorni, mattina compresa»).
Poi le prime affermazioni: un proprio bungalow. «La cucina - ricorda - era così piccola che dovevamo mangiare a turno. La strada così fangosa che ci toccava uscire di casa con gli stivali, portando le scarpe in mano e calzandole solo raggiunto l’asfalto, nascondendo gli stivaloni lungo il ciglio». Però anche le prime pedalate fino alla spiaggia e l'incontro con le ragazze. E il vino, servito nelle trattorie camuffato in bottigliette di Coca-Cola, perché la licenza per gli alcolici mica tutti l'avevano. Pino ha lavorato come apprendista, poi operaio, poi ha fondato la “Bartolomè Electronics”. Si è sposato, ha avuto due figlie. Ha scritto un libro (“Esilio e nuova vita sotto la Croce del Sud”). Le foto? «Beh, poi ho avuto altro da fare».
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