Caso Rasman, no al maxi risarcimento

Confermato in appello il milione e 200mila euro destinato alla famiglia che chiede otto milioni: «Andremo in Cassazione»
Un milione e 200mila euro erano e un milione e 200mila euro rimangono. Così hanno deciso i giudici della Corte d’appello del Tribunale civile che hanno sostanzialmente confermato la sentenza di primo grado sul risarcimento che il ministero degli Interni e tre agenti della Questura di Trieste (Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi) dovranno pagare alla famiglia di Riccardo Rasman, il giovane di 34 anni morto nel 2006 in seguito all’irruzione della polizia nella sua abitazione di Borgo San Sergio.


A pronunciare la sentenza è stato Salvatore Daidone, presidente della Seconda sezione civile composta anche da Maria Antonietta Chiriacò e Arrigo De Pauli. I giudici di secondo grado hanno anche condannato la famiglia di Rasman - che tramite gli avvocati Giovanni Di Lullo e Claudio Defilippi aveva ricorso in appello dopo la sentenza di primo grado - al pagamento della somma di 15mila euro relativa alle spese legali sostenute dagli agenti. «Andremo fino in Cassazione, perché vogliamo sia fatta giustizia. Il caso Rasman è stato molto più grave di quello di Federico Aldovrandi, lo studente ferrarese ucciso dalla polizia», ha tuonato l’avvocato Defilippi.


La famiglia infatti aveva reclamato nel ricorso in Appello che l’entità del risarcimento venisse portata a otto milioni di euro. Avevano chiesto insomma la differenza tra un milione e 200mila euro e otto milioni che equivale a poco meno di sette milioni. Ma i giudici hanno risposto che la quantificazione del danno rilevata nella sentenza di primo grado, appunto un milione e 200mila euro, è stata corretta ed equa. E la stessa risposta hanno dato all’Avvocatura dello Stato che - per ragioni esattamente opposte - aveva giudicato nel suo ricorso in Appello eccessiva la cifra del risarcimento di un milione e 200mila euro.


Nella sentenza dunque il risarcimento viene ripartito come indicato nella sentenza di primo grado tra la madre di Riccardo Rasman, Maria Albina Veliscek (556mila euro), il padre Duilio (345mila euro) e la sorella Giuliana (200mila euro). Infine nelle motivazioni viene ribadito che riguardo l’episodio in cui ha perso la vita Rasman «non si può configurare un concorso di colpa». Si legge in proposito: «È ben vero che la vittima si è presumibilmente posta da sé in condizioni di particolare aggressività, non assumendo gli appropriati farmaci, ma non le si può certamente addebitare alcunché nell’atroce situazione di incaprettamento e pressione asfittica».


La data della tragica fine di Riccardo Rasman è quella del 27 ottobre 2006 quando i poliziotti assieme a due pompieri erano entrati di slancio nell’alloggio di via Grego 38 dopo aver tentato invano per una ventina di minuti di farsi aprire la porta. Dal terrazzo del monolocale di Riccardo Rasman, secondo l'allarmata indicazione dei vicini, erano stati lanciati pericolosamente in strada alcuni petardi.


Da qui la richiesta di intervento. Rasman si era difeso, si era avventato contro gli agenti. Ne era scaturita una mischia, alla luce delle torce elettriche. Il giovane era stato ammanettato con i polsi dietro la schiena: i vigili del fuoco subito dopo gli avevano legato le caviglie con del filo di ferro. Era stato incaprettato. Poi l’uomo era stato tenuto disteso sul pavimento e, perché non potesse più reagire, i poliziotti avevano esercitato sul torace una pressione prolungata. Ma Riccardo Rasman aveva iniziato a rantolare: la sua disperata richiesta di aria, col relativo rumore delle inspirazioni sempre più strozzate, era stata sentita da una vicina di casa. «Ho udito i lamenti dell’arrestato che ansimava forte e respirava affannosamente. Erano gli agenti a stare sopra a Rasman», aveva detto.


Ma nessuno dei poliziotti aveva pensato in quel momento di sollevare quell’uomo da terra, liberandolo del loro peso. Quando avevano chiamato il 118 ormai era troppo tardi. L’ambulanza era tornata mestamente vuota al parcheggio ed era entrato nell’appartamentino Ater il medico legale. «Asfissia da posizione», avevano scritto nella perizia i medici Fulvio Costantinides e Giovanni del Ben. Secondo il loro elaborato la tragica conclusione dell’irruzione doveva essere attribuita a una serie di concause: in primo luogo al notevole sforzo muscolare sostenuto da Riccardo Rasman per opporsi all’irruzione degli agenti. In secondo luogo alla sua stazza fisica, piuttosto corpulenta. In terzo luogo determinante era stata considerata «la posizione prona, con le mani ammanettate dietro la schiena e le caviglie legate, nonché con alcune persone poste sulla schiena».


Il 14 dicembre del 2012 la Quarta sezione penale della Cassazione aveva confermato in via definitiva le condanne a sei mesi di reclusione, con pena sospesa, per omicidio colposo, a carico dei tre poliziotti: Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi.


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