Ciminiere sterminate: lo specchio del declino

di Claudio Erné
Decine di ciminiere di altrettante fabbriche sono state abbattute a Trieste nell’ultimo mezzo secolo.
Hanno seguito, rimarcandolo in modo chiarissimo, il declino industriale della città. Le ciminiere sono state azzerate, rase al suolo perché non servivano più, non avevano più un ruolo da svolgere. Impossibile riconvertirle ad altra destinazione, com’è accaduto per tanti capannoni industriali trasformati in uffici e punti vendita. Anzi le ciminiere costruite in mattoni e abbandonate a se stesse, ai fulmini, alle raffiche di bora, al freddo intenso dell’inverno e al sole cocente dell’estate, rischiavano di procurare danni, crollando in parte o in tutto. Tenerle in efficienza con una manutenzione puntuale a 50, 60 metri d’altezza, costava troppo. Quindi ne è stata decretata la morte.
Sono state così abbattute le ciminiere dell’oleificio Gaslini, quelle della Fabbrica Macchine di Sant’Andrea, del Cantiere San Marco e del San Rocco, dell’Arsenale, della Stock, della birreria Dreher, della fabbrica di Saponi Adria, dell’Alba, l’unico stabilimento che costruì all’inizio dello scorso secolo una decina di automobili a Valmaura. Via dal cielo e via anche della memoria. Una rimozione collettiva.
Al contrario per il lungo periodo posto a cavallo della fine dell’Ottocento e i primi tre decenni del Novecento, le ciminiere hanno costituito un elemento indispensabile per l’iconografia dell’industria che voleva essere trionfante. Più ciminiere fumanti, più produzione, più “progresso”. Anche questo è stato il loro significato.
Qualcosa di simile aveva coinvolto i transatlantici o meglio la loro immagine: più fumaioli volevano dire più potenza, più velocità, più prestigio. Ben quattro ne esibiva il “Titanic”, anche se l’ultimo della fila, quello più vicino alla poppa, era posticcio. Falso, perché non convogliava verso il cielo il fumo nero del carbone bruciato a tonnellate nei forni della caldaie. Era stato messo lì per impressionare, per creare emozione e consenso.
Altrettanto accadeva nelle fabbriche che negli stessi anni dovevano produrre in proprio l’energia per muovere i magli, le presse, i telai, i torni, i mulini. Era l’era del vapore, del carbone, del fumo nero e delle ciminiere. Il numero dei camini costituiva la prova fisica dell’importanza della fabbrica e del suo proprietario. Ne esaltava il ruolo del prodotto e dell’iconografia con cui veniva proposto al pubblico. Ricordate le scatole di Franck, un succedaneo del caffè ricavato dalla cicoria su cui erano stampate fabbriche ideali, con numerose e improbabili ciminiere.
Una stabilimento all’epoca non poteva non esibirle al pubblico, così come le società armatrici dei transatlantici. Poi la rete elettrica avrebbe raggiunto fabbriche e opifici e sarebbero entrati in scena transatlantici a un solo fumaiolo, basso e tozzo, come quelli della Saturnia e della Vulcania. Le loro macchine non erano più alimentate dal carbone o da olio pesante: nei cuore degli scafi ritmicamente ruggivano i motori diesel.
Alla decimazione delle ciminiere triestine, qualcuna è però scampata. È in vita quella della fabbrica di cioccolato “Lejet”, quasi coperta dalla vista agli altri edifici di via Buonarroti dove aveva sede lo stabilimento. Creata nel 1875 da Nicolò Lejet, un industriale francese giunto a Trieste nel 1858 per lavorare nella " Fabbrica di cioccolato e cacao A. Valerio”, la ditta ebbe prima sede nella parte bassa di via del Farneto, per trasferirsi nel 1890, in via Buonarroti. Dotato di macchinari avanzati, lo stabilimento, apprezzato per la qualità del suo cioccolato, esportava in varie province dell'impero austro-ungarico. Ha operato, attraverso assestamenti e cambiamenti societari, sino alla seconda metà degli Anni Cinquanta.
È viva anche la ciminiera di quello che fu l’Ospedale psichiatrico di San Giovanni costruita all’inizio dello scorso secolo. Sulla sua sommità sono oggi installate le antenne di una radio privata.
È in buona salute e molti operai la stanno restaurando, la ciminiera della Centrale idrodinamica del Porto vecchio dove venivano convogliati i fumi della caldaie che fornivano il vapore necessario a comprimere l'acqua nei 17 chilometri di tubazioni, collegate a 200 gru e montacarichi. L’acqua in pressione consentiva alla gru di scaricare le navi e ai montacarichi di sollevare nei vari piani dei magazzini le singole derrate.
Anche la ciminiera della Vetrobel svetta verso il cielo a pochi metri dalla riva del canale industriale di Zaule. Lo stabilimento non esiste più, è ed è questo l’unico ricordo di una fabbrica che più che per la sua produzione, è entrata nella memoria collettiva, per l’infinita durata della cassa integrazione di cui usufruirono i suoi 700 dipendenti. Una ciminiera che ricorda un paradosso.
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