Costituzione, né mito né carta straccia

Luci e ombre sul documento fondante della Repubblica italiana analizzati da Sergio Bartole
Di Mario Bertolissi

di MARIO BERTOLISSI

Nonostante si continui a ritenere, da parte di molti e di frequente, che la realtà va semplicemente scoperta e descritta, osservandola, è vero esattamente il contrario. Il bene - nota Alessandro Manzoni - «non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso stanno come possono». Alla parola bene se ne può sostituire un’altra: ad esempio, Costituzione, la quale dice a noi stessi quel che siamo.

Questo banale rilievo spiega perché si disputino il campo non solo opinioni diverse, ma opinioni tra loro in radicale contrasto. C’è chi mitizza la legge fondamentale del 1946-1947 (sono gli anni in cui fu elaborata e approvata); chi la vorrebbe modificare, con una certa cautela o no; chi la vorrebbe sostituire con altra, dopo aver convocato un’assemblea costituente. Inutile dire che mi iscrivo nella pattuglia di coloro che credono nell’adagio adelante con juicio. Tuttavia, visto che di giudizio in giro ce n’è poco, forse è bene riflettere su quel che si ha - sulla Costituzione che c’è - visto che il rischio che si corre è - ci avverte il solito grande lombardo - di veder «convertito in legge il desiderio» della «moltitudine». Del popolo che si è fatto plebe. Non siamo lontani da un simile pericolo: sia perché c’è qualcuno che lo vorrebbe, sia perché stiamo deturpando, giorno dopo giorno, ciò che rappresenta il fondamento della nostra coesistenza. Si è parlato in passato - lo ha fatto Mario D’Antonio - di Costituzione di carta. Oggi, dobbiamo preoccuparci di non ridurla a carta straccia.

Il declino si può combattere in molti modi. Lo studioso lo fa riflettendo. La riflessione può essere libera e serena oppure ammiccante. Pelosa, verrebbe voglia di dire, quando il pensiero nasconde sempre un retropensiero. Una preoccupazione per sé ed il proprio avvenire. Sergio Bartole ha pensato agli altri e per gli altri. Per quelli che oggi operano, dovunque e comunque nella Repubblica, e per quelli che verranno un domani. La premessa - che, nella struttura della sua elegante ricostruzione (“La Costituzione è di tutti”, il Mulino, euro 19) è, in realtà, “una prima conclusione” - è la seguente: la «vigente Costituzione repubblicana si configura come una costituzione di compromesso strutturata per principi e destinata alla tutela di interessi e valori anche divergenti».

Nell’attributo divergenti risiede la spiegazione più vera e genuina del modo di pensare dell’illustre costituzionalista, il cui modus operandi postula sempre il molteplice, il non-totalizzante, in nome di una dialettica che si fa ragionamento, comparazione, rispetto.

Rispetto per chi? Dato l’oggetto dell’indagine - sempre accurata, lineare, chiara pur nella complessità ed essenzialità delle riflessioni -, il primo destinatario di quel che ho denominato rispetto è la Costituzione, che «si è venuta configurando come l’espressione di un nuovo ordinamento politico, destinato a sostituirsi progressivamente al precedente, senza avere la pretesa di dare vita a uno Stato nuovo e a un ordinamento giuridico statale integralmente nuovo».

Vi è, in ogni pagina, un profondo senso del divenire e della storicità dei fenomeni istituzionali, mai disancorati tuttavia dal “diritto positivo”, che nella Costituzione repubblicana appare a Bartole strutturato per “principi”.

Non identificabile «con la forza politica o le forze politiche che si consideravano portatrici esclusive della costituzione materiale», il testo, articolato per norme programmatiche e norme precettive, «poteva e può fornire - secondo il compromesso costituzionale e con l’introduzione di precetti anche fra loro discordanti - protezione a un largo spettro di posizioni e interessi anche diversi e contrastanti».

Rispetto, quindi, per quanti - persone fisiche ed enti comunitari d’ogni qualità e specie, mi è parso di intendere - fanno parte della Repubblica, dalla quale finirebbero per essere esclusi ove si accettasse l’idea di costituzione materiale. Fuori sarebbero condannati a rimanere quanti non sono parte integrante del potere che si fa comando. Così, in un accenno sintetico e rozzo, ma eloquente. Come eloquenti sono le pagine attraverso le quali egli dà la prova provata dei disaccordi tra le forze politiche che hanno accompagnato l’inattuazione e l’attuazione della Costituzione.

Non vi è stato mai «un unico, condiviso e comprensivo progetto», come è confermato da una sequenza interminabile di fatti e di atti quali: la distinzione, potenzialmente eversiva delle dottrine tradizionali, tra disposizione e norma; il ruolo, a dir poco travolgente, dell’interpretazione; la funzione regolatrice e stabilizzatrice della Corte costituzionale e del Presidente della Repubblica.

Dovendo scegliere tra una serie articolatissima di notazioni, tenute insieme da una logica serrata, a me pare che sia la nozione di principi costituzionali a rendere esplicita la ragione stessa di questa profonda disamina. Infatti, «i principi costituzionali (…) esprimono posizioni e interessi che non si vogliono oggetto di una generale condivisione e restano fra loro distinti e contrapposti e, quindi, non si fondono in un tutto confuso e indeterminato, ma esigono generale e doveroso rispetto».

Proprio così: rispetto! Il quale, se inteso come criterio-ispiratore dell’attività del giurista, qualunque esso sia, che interpreta e applica la Costituzione, è garanzia certa della durata nel tempo e della forza normativa della legge fondamentale.

Essa si è dimostrata in grado di offrire soluzioni a problemi che una società in cammino è andata prospettando: in tema di diritto di famiglia (si pensi al divorzio e all’aborto, alla filiazione legittima e naturale, ai rapporti tra genitori e figli…), di laicità, di cittadinanza, di lavoro e di impresa, in una prospettiva che guarda sempre alle trasformazioni globali in atto.

Sergio Bartole, studioso tra i più autorevoli delle autonomie, ne accenna soltanto in questo suo nuovo saggio. Ma, se ne avesse parlato, forse non si sarebbe espresso con parole molto diverse da queste - sono di Claudio Magris - che dicono così: «Federalismo, decentramento, autonomie locali» non possono prescindere dalla cultura.

E «cultura significa sempre pensare e sentire in grande, avere il senso dell’unità al di sopra delle differenze, rendersi conto che l’amore per il paesaggio che si vede dalla propria finestra è vivo solo se si apre al confronto col mondo, se si inserisce spontaneamente in una realtà più grande, come l’onda nel mare e l’albero nel bosco».

Per questo, «la Costituzione è di tutti». È di tutti perché è di principi. Perché non esclude nessuno, in quanto «tutti vi possono trovare attenzione alle loro ragioni»; «tutti possono trovare nella Costituzione considerazione e rispetto dei loro interessi e della loro posizione».

Il più delle volte, memorie e pensieri in libertà - concepiti per rendere evidente un punto di vista, una aspirazione, un affetto ed altro ancora - lasciano il tempo che trovano. Appaiono più il riflesso di un’abitudine che di una scelta personale, alla quale corrisponde un ethos. Sergio Bartole ha dedicato questo suo splendido lavoro «all’Università italiana che in molti abbiamo onorato e tanti hanno tradito».

Toccherà ad altri includere chi scrive nell’una piuttosto che nell’altra categoria. Ma non posso sottrarmi a un obbligo morale: quello di testimoniare il rigore con cui il giurista triestino ha affrontato temi e problemi, tra i più delicati e complessi del diritto costituzionale, e offerto soluzioni, senza mai attendere che da ciò scaturisse un vantaggio personale, per quanto piccolo. D’altra parte, «ove si voglia operare nel campo del diritto costituzionale con onestà intellettuale», scrive parlando d’altri. In realtà, senza saperlo, parlava di sé!

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