Dalle reti all’anticoncezionale: le risposte all’allarme cinghiali

TRIESTE. Ogni anno in provincia di Trieste vengono uccisi tra i 700 e gli 800 cinghiali. In particolare, la polizia ambientale è costretta ad abbattere tra i 150 e i 160 capi per ragioni di emergenza sorte a seguito di criticità segnalate. I dati forniti dall’amministrazione provinciale, le cui competenze in materia sono passate ora alla Regione, permettono di intuire la portata del fenomeno. Se quindici anni fa nel goriziano veniva abbattuto un centinaio di cinghiali, nella stagione venatoria 2014-15 il numero è salito a 507. Il quintuplo.
Da un’analisi dei censimenti, si è calcolato un aumento medio della specie intorno al 14% negli ultimi 15 anni. A Gorizia e Trieste il problema è particolarmente sentito. Tra avvistamenti, scorribande nei vigneti (come quella avvenuta a San Floriano del Collio) e sanzioni per chi viene sorpreso a dar loro da mangiare, di recente i cacciatori del Cormonese hanno lamentato i troppi ostacoli amministrativi e burocratici per la soppressione degli ungulati.
Ucciderli è l'unica soluzione? «L’unica soluzione per fermare l’emergenza è abbattere più capi di quanto sia permesso abbattere oggi», la posizione del consigliere comunale di Cormòns, Roberto Felcaro.
Di opinione opposta è Massimo Vitturi, responsabile area Animali Selvatici della Lega Anti Vivisezione (Lav), che spiega l’aumento del numero di questi mammiferi con il tipo di strategia di sopravvivenza adottata. «I cinghiali vivono in branchi sociali in cui comandano le femmine. Sono molto legati tra loro, al punto che l’estro (il periodo in cui una femmina è recettiva all’accoppiamento, ndr) è sincronizzato, così i piccoli hanno più possibilità di farcela», riferisce Vitturi. In tutta Europa il cinghiale arreca danni all’agricoltura per oltre 80 milioni di euro all’anno, ma gli abbattimenti non sono un metodo efficace per evitare o limitare i danni, anzi, potrebbero incrementarli, sosteneva un anno fa, dalle colonne del Fatto Quotidiano, il professor Carlo Consiglio, zoologo e presidente onorario della Lega Abolizione Caccia (Lac).
I metodi alternativi. L’abbattimento dei capi, secondo Consiglio ma anche per Massimo Vitturi, è una soluzione troppo semplicistica che non tiene conto della struttura di popolazione e del comportamento peculiare degli animali. Quando i cinghiali, che non sono territoriali, sono pesantemente cacciati, i gruppi consolidati vengono a disgregarsi e questo contribuisce ad aumentare la fertilità della specie. Venendo meno il fenomeno della simultaneità dell’estro, da una gravidanza all’anno si passerebbe a due. Un convegno del 2015 della Lac sull’emergenza cinghiali ha mostrato come la via preferenziale per contenere i danni del cinghiale passi attraverso le iniziative di prevenzione e l’opportuna circoscrizione dei terreni. La difesa delle colture attraverso recinzioni elettrificate darebbe risultati positivi in oltre il 90% dei casi secondo Andrea Marsan, biologo dell’Università di Genova. Le recinzioni vanno disposte intorno all’insieme dei campi coltivati e combinate con la pasturazione, «perché i cinghiali devono trovare qualcosa da mangiare, altrimenti saranno portati a forzare le recinzioni», l’opinione di Consiglio.
Secondo gli esperti, le recinzioni elettriche permetterebbero di raggiungere perfino l’azzeramento del livello di danni. «Esistono sistemi come i dissuasori olfattivi, ovvero schiume con odori fastidiosi per il cinghiale, ma durano poco nel tempo. Non potendo installare la recinzione elettrificata, si può mettere intorno alle piante del proprio orto del peperoncino in polvere, ad un metro circa di distanza dalle colture», suggerisce Massimo Vitturi della Lav. «Il loro apparato olfattivo è molto sensibile e viene infastidito dalla polvere».
Vitturi sottolinea come lo stesso Ispra, ovvero l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, indichi che la caccia non sia lo strumento più efficace per gestire la popolazione di cinghiali. Anzi. Rappresenta una delle cause del problema. «Le immissioni a scopo venatorio, iniziate negli anni ‘50, hanno sicuramente giocato un ruolo fondamentale» nella diffusione della specie, scrive l’Ispra. Invece di incrementare la mortalità, la soluzione auspicata dall’esperto è quella dell’anticoncezionale. «Il farmaco esiste ma è utilizzabile per via intramuscolare, con un’iniezione. Si tratta dello stesso che si usa per cavalli e grandi erbivori». Iniettando a distanza negli animali il vaccino GonaCon, in un’unica fiala, è possibile ottenere un effetto durevole dai tre ai cinque anni. «I ricercatori stanno studiando una formula per mischiare il GonaCon al mangime, al fine di somministrarlo ai cinghiali per via orale. Questo è l’obiettivo che si vuole raggiungere. Siamo impegnati e collaboriamo con i ricercatori affinché lo si distribuisca quanto prima».
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