E in piazza Lipsia si levò «odore di pesce marcio»

I residenti protestarono quando l’animale fu imbalsamato con un lungo e laborioso procedimento
Di Nicola Bressi*

Secondo le ricerche del naturalista e storico William Klinger (che sabato sarà ospite del Museo con una sua splendida relazione) un tempo il tratto di mare tra il golfo di Trieste e il Quarnero era popolato di Carcharodon carcharias, i grandi e temibili squali bianchi classificati, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, come Carcharodon rondoletti, e volgarmente chiamati “Cagnizza”.

Definiti i più grandi pesci predatori del mondo, nuotavano in gran numero in queste acque attratti dalle tonnare presenti nell’area: quattordici quelle attive sul litorale triestino e più di venti nel Quarnero. La presenza di grandi banchi di tonni che rimanevano intrappolati nelle valli da pesca e nelle baie costituiva un’attrazione per il predatore.

Il primo aprile del 1872 i Governi Marittimi di Trieste e Fiume, emisero una “notificazione” che prevedeva un conferimento di premi per la cattura e uccisione dei “pesci Cani”. Tale misura si applicava unicamente ad esemplari della specie “Charcharodon rondoletti” (l’attuale squalo bianco) catturati nelle acque territoriali della monarchia austro-ungarica.

Le autorità stabilirono un compenso di: venti fiorini per le catture lunghe meno di un metro (anche se sappiamo che lo squalo bianco appena nato misura oltre 120 centimetri); trenta per esemplari da uno a quattro metri; e cento fiorini se lo squalo superava la misura di quattro metri. nel caso di un avvistamento di uno squalo oltre i quattro metri, si bandiva una gara mirata alla cattura che portava il premio a 500 fiorini.

Sappiamo oggi che le autorità spesso non distinguevano le varie specie di squalo catturate così come la popolazione, per cui catture inferiori al metro venivano confuse con lo squalo bianco e in molte occasioni anche esemplari più grandi venivano registrati agli uffici portuali sanitari in maniera erronea.

Tra il 1872 e il 1890 - come ci ricorda ancora William Klinger - furono effettuate 33 catture di squali ricompensate (ma solo in undici casi si trattava davvero di squali bianchi), mentre tra il 1890 e il 1909 le catture - queste sì, accertate, di “Great White Shark”, dall’allora incaricato professor Giovanni (Janos) Matisz - furono 22. In tutto, più di trenta squali bianchi presi in 37 anni, in media quasi uno all’anno. E alcuni erano enormi.

In particolare, lo squalo bianco catturato il 3 ottobre 1909 a Lukovo nella tonnara di Ivan Skomerza era lungo ben 6,6 metri: uno dei più grandi esemplari mai catturati al mondo. Tra gli esemplari catturati una sola femmina gravida con tre piccoli nel ventre.

Ma veniamo ora all’incredibile gigante chiamato Carlotta.

Dalle ricerche effettuate in questi ultimi anni dal Civico museo di storia naturale e grazie alle donazioni e alle preziose e squisite testimonianze di Caterina e Tea Morin, la storia del nostro squalo comincia a dipanarsi e si materializza in una specie di Moby Dick dove al posto del Capitano Achab c'è il Capitan Barbarossa. E, soprattutto, al posto dell'Oceano c’è il Nord Adriatico.

Ma andiamo con ordine. Il 29 maggio 1906, il capitano Antonio Morin, commissario navigante, Imperial-Regia Guardia di Finanza, mentre solcava le acque dell'Adriatico tra l'Istria e Cherso (Cres, oggi in Croazia) a bordo del Piroscafo ad elica “Quarnero” (costruito e varato a Muggia) catturò un grande squalo bianco. I termini della cattura restano misteriosi, ma ancora oggi sul dorso dello squalo si vedono fori di pallottole di fucile.

Il capitano Morin, nativo di Sansego, residente a Trieste e detto "Capitan Barbarossa” per la folta barba rossa che ne adornava il volto dandogli un tocco di imperiosità, tolse un dente allo squalo e ne fece una portafortuna che portò alla catena dell'orologio da taschino per il resto della sua vita.

L'intero pescecane - chiamato Carlotta da Morin, in onore di sua figlia - venne donato all'allora Civico museo Ferdinando Massimiliano (il nostro Museo civico di Storia naturale di Trieste) dove fu imbalsamato interamente, con un ardito procedimento che durò molti giorni e «appestò di odore di pesce marcio - come si legge in una lettera di protesta che ancora conserviamo - l'intera piazza Lipsia (oggi piazza Hortis) nella quale aveva sede il Museo.

Carlotta fu l'unico della stirpe dei grandi squali mediterranei ad essere imbalsamato a futura memoria. Forse anche perché, grazie all'invenzione dell'elica (che proprio a Trieste J. Ressel sperimentò per primo), Carlotta giunse trainata da un piroscafo a elica e quindi non arrivò a terra ormai marcia e danneggiata (anche l'uccisione a fucilate l'ha preservata dai danni di arpioni e reti).

L'esemplare si rivelò essere una femmina adulta di squalo bianco (Carcharodon carcharias) di 5 metri e 40 centimetri di lunghezzam e restò per 104 anni appesa al soffitto di una sala dell'allora Museo, sopravvivendo (un po' malconcia) a due guerre mondiali e a cinque cambi di nazionalità.

Nel 2013 è stata rinaturalizzata grazie alla Provincia di Trieste e nel 2014 gli è stata finalmente dedicata una sala degna del più grande squalo bianco conservato in Europa e nell’intero emisfero settentrionale del mondo (o forse del mondo intero visto che dello squalo brasiliano, unico a superare ufficialmente Carlotta in lunghezza, sembra si siano da un po' perse le tracce...).

* direttore dei Musei scientifici del Comune di Trieste

Riproduzione riservata © Il Piccolo