E la signora Cargnelli ospitò i soldati dell'Armata di Tito

Storici autorevoli e moltissime testimonianze delineano il quadro complesso che, il 1° maggio 1945, conferma la diversità d'interessi e di obiettivi tra il Comitato di liberazione nazionale giuliano (Cln) ed un'opinione pubblica di forte identità italiana, desiderosi, a vittoria avvenuta, di entrare a far parte di un sistema liberale ispirato alle grandi democrazie occidentali e larghi strati dei ceti popolari italiani e sloveni di fede internazionalista, che videro nelle truppe di Tito la speranza di un mondo nuovo, in grado di venir incontro alle aspirazioni di pace, giustizia sociale ed amicizia tra i popoli.
Al di là dei due schieramenti, protagonisti delle battaglie finali contro il nazifascismo, va considerata un'opinione pubblica che visse quelle giornate decisive in modo non meno contrastante. L'insurrezione del Cln precedette in città di poche ore quella del comando-città sloveno e dell'Unità operaia. Il 26 ed il 27 aprile si assaltarono bunker e si disarmarono pattuglie nemiche. Il 29 aprile le azioni si intensificarono sino a raggiungere il centro città. Il 30 aprile si dava il via all'insurrezione generale. Secondo Diego de Henriquez, che raccolse i dati sulle forze in campo, i tedeschi a Trieste e nei dintorni potevano contare ancora su settemila uomini, considerando le unità affluite in ritirata dall'Istria.
Nella sera del 30 aprile, dopo aver catturato come prigionieri numerosi militari tedeschi di un reparto in ritirata dall'Istria, gli insorti del Cln (circa 2.000 persone) riuscirono ad ottenere il controllo di gran parte del centro cittadino. I tedeschi si erano asserragliati in alcuni capisaldi, imprendibili senza l'apporto di artiglieria e carri, come il Palazzo di Giustizia, il Castello di San Giusto, dominante la città, ed alcune zone dell'area portuale. Contemporaneamente aveva avuto luogo in periferia l'insurrezione delle formazioni di Unità operaia - circa 7.000 persone - che, occupate le zone industriali, avanzarono a loro volta verso il centro.
In quei momenti gli Alleati decidevano di intervenire ed iniziare la "corsa per Trieste", mentre il 27 aprile le truppe jugoslave erano a 41 km da Trieste e quelle angloamericane a 222; il 1° maggio queste ultime si trovarono a 29 km.
Come scrisse Elio Apih, la forza del Cln era nella posizione di principio, che rappresentava la volontà nazionale italiana condivisa ben al di là dei gruppi e delle persone facenti capo ad esso. L'organizzazione contava molto sul piano politico militare. Si apriva la questione su chi avrebbe gestito l'amministrazione dopo l'uscita dei tedeschi, soprattutto nel caso di un'occupazione alleata. Da qui il tentativo dell'Osvobodilna fronta (Of) – Fronte di liberazione sloveno, il comitato di coordinamento delle formazioni partigiane jugoslave, di inserire in qualche modo il Cln in un organismo amministrativo che gli angloamericani non avrebbero potuto sciogliere e che avrebbe evitato di dover fronteggiare un'italianità compatta. Dal rifiuto nacque il Comitato Esecutivo Antifascista Italo-Sloveno (Ceias) di totale emanazione Of.
Intanto, l'offensiva jugoslava si muoveva lungo la direttrice di Fiume e il IX Korpus puntava su Trieste da nord-est. Scrive Jože Pirjevec: «Quell'azione militare si inseriva nel più ampio contesto della comune offensiva alleata, tesa a spezzare la rimanente forza militare del Terzo Reich». Secondo gli accordi presi fra lo Stato maggiore jugoslavo e quello del maresciallo Alexander, dice ancora Pirjevec, le truppe jugoslave impiegate nella fascia litoranea dell'Adriatico orientale avrebbero dovuto tenervi impegnate quante più forze nemiche possibile, per rendere più agevole agli angloamericani la conquista dell'Italia settentrionale. Con la propria offensiva, infatti, la 4ª Armata bloccò non solo le divisioni che appartenevano al Comando balcanico della Wehrmacht, ma anche il 97° Korpus, parte delle armate del gruppo C stanziate in Italia, che però nel corso di aprile era stato assegnato al gruppo di armate E (Jugoslavia). Sotto Fiume le forze tedesche combatterono con molto vigore, per cui Tito ordinò il 27 aprile di mettere sotto assedio la città, e insieme di costituire, in seno alla 4ª Armata, un nucleo particolare di divisioni, incaricate di puntare immediatamente su Trieste. A questo scopo vi fu aggiunto anche il 9° Korpus dell'Esercito di liberazione sloveno, forte di 5.000 uomini, che operava dal 21 dicembre 1943 nella parte slovena della Venezia Giulia. Con una manovra di accerchiamento la 4ª Armata aggirò il Monte Nevoso, conquistando il 28 aprile il centro nevralgico dell'area, Illirska Bistrica. I tedeschi, che avevano cercato di potenziare il 97° Korpus nei dintorni di Fiume con le loro forze migliori, erano in quel momento piuttosto deboli in Istria e nel litorale triestino, dove fra Muggia e Monfalcone potevano disporre solo di alcuni battaglioni di fanteria e alcuni gruppi di artiglieria, soprattutto marittima e contraerea: il grosso della 188ª divisione, il Sichercheitsbattaillon 309, la marina (tedesca, italiana e croata), genieri di marina, la 26ª batteria costiera della milizia italiana. Sulla riva destra dell'Isonzo, in Friuli, operavano invece la brigata SS Karstjäger, nonché divisioni cosacche e caucasiche.
Il 28 aprile i contingenti della 4ª Armata inviati a liberare Trieste dal nazifascismo si disposero intorno alla città in un'ampia cerchia che passava dal Monte Maggiore in Istria, alla selva di Tarnova (Trnovski gozd) vicino a Gorizia. La forza d'urto principale, la 20ª divisione dalmata rafforzata da tre divisioni di carristi e da due gruppi d'artiglieria motorizzata puntò direttamente sulla città: «L'ordine impartito dal suo comandante colonnello Bogdan Pe›oti› era perentorio: “Senza assicurare i vostri fianchi, avanzate arditamente verso Trieste. Entrate a Trieste e incominciate la lotta strada per strada”».
Alla fine d'aprile anche il distaccamento di staffette dell'Istrski Odred riceveva l'ordine di avanzare verso Trieste. A Villa del Nevoso - raccontava Livio Malalan, sloveno del Carso che, assieme alla sua famiglia, lavorava politicamente e militarmente con i sovietici - «devo ancora pagare le biciclette che ho sequestrato». Rientrato a Trebiciano il 28 aprile, il quindicenne Livio trovò una situazione abbastanza tranquilla. Il 1° maggio 1945, sarebbe stato uno dei primi partigiani dell'Esercito Nazionale di Liberazione Jugoslavo a sfilare per il centro di Trieste.
Nei rioni prevalentemente sloveni le truppe di Tito suscitano giubilo; si espongono bandiere bianche, rosse e blu con la stella rossa, bandiere anche di enormi dimensioni, che suscitano rabbia e costernazione nelle famiglie filo italiane, fasciste o nazionaliste. Molte testimonianze ancora inedite indicano, tuttavia, l'estrema educazione e gentilezza dei soldati e ufficiali di Tito nei confronti dei civili italiani. Nel rione di Servola, ad esempio, l'accampamento allestito dalla 4ª Armata in via Roncheto si trovava proprio di fronte ad una famiglia irredentista filoitaliana da tre generazioni. Le donne di casa hanno più volte ricordato il rispetto e la cortesia di partigiani e partigiane dell'esercito jugoslavo nei confronti di tutti. A Opicina, la signora Cargnelli, allora ragazza, dovette ospitare nella sua confortevole dimora alcuni soldati dell'Armata di Tito. La Cargnelli, fervente patriota italiana legata al Corpo Volontari per la Libertà (Cvl), ha ricordato, a sua volta, l'educazione, il rispetto, l'atteggiamento amichevole di quegli ospiti.
Fra gli operai delle fabbriche triestine l'esultanza fu palese. Nicolò Drioli, operaio antifascista al Cantiere San Rocco di Muggia, ha raccontato: «Il Primo Maggio abbiamo fatto una festa grande. Era tutto imbandierato. Nonostante i miei impegni, non potevo dimenticarmi che avevo un obbligo da assolvere. Molto tempo prima al San Rocco avevano costruito un bel stampo 'a do manize' (con due manici, ndr), che serviva per far delle teste di Mussolini. Queste si trovavano in piazza, nel cantiere e in cento altri posti. A dir il vero, gli avevo allargata la bocca più che potevo. Ricordo che tutti quelli che passavano dalle parti della piattaforma, come mi vedevano lavorare attorno a questo testone, mi prendevano in giro: 'Cos'te fazi?' - mi dicevano. Ed io di rimando: 'No ste bazilar, me ciogo mi l'impegno andar a piturarle per tuto co' vegnerà el momento!' E così ho fatto! Nel maggio del '45 son corso a pitturar di nero tutte quelle che vedevo».
Anche Diego de Henriquez descrive nei suoi diari l'atteggiamento cordiale delle truppe jugoslave che ha modo di incontrare e fotografare a piacimento in vari punti della città.
Giovanni Tomè, che ha partecipato ai combattimenti nei pressi della caserma di via dell'Istria, assiste all'arrivo dell'esercito jugoslavo: «Era l'una del mattino. I battenti della nostra caserma si spalancarono. Erano i primi settanta uomini d'avanguardia del Corpo jugoslavo… erano molto spossati per l'estenuante inseguimento del nemico e per i continui combattimenti che sostenevano già da giorni, incalzando sempre da vicino i tedeschi, e senza nessuna tregua. Frammiste c'erano donne anche anziane, con pantaloni, cinturoni, stivaloni e mitraglierie pesanti in spalla. C'era pure un italiano, un siciliano, bel ragazzo, piccolo, smilzo, in disordine come tutti gli altri. Per noi, dopo la consegna dei turni di guardia, venne il meritato riposo. Quando mi svegliai c'era il sole, il sole di quel primo maggio». Giunte in città le truppe jugoslave chiesero la consegna delle armi al Cvl, che decise di ritirare le sue forze. Aveva perso cinquanta uomini, mentre nella campagna per la Venezia Giulia l'esercito jugoslavo ne perse diverse centinaia. E.R., tenente dell'esercito italiano, rientra a casa in via Rittmeyer scendendo con la mitragliatrice da un carro trainato da cavalli. Rivede così, dopo quasi cinque anni, l'amata moglie ed il figlioletto che ha dovuto abbandonare per combattere in Africa settentrionale e poi al fronte balcanico. Come altri militari italiani ha preferito unirsi all'Esercito Nazionale Popolare di Liberazione Jugoslavo. Altro capitolo poco indagato. E.R., lontanissimo per mentalità e cultura dall'idea comunista, ha mantenuto, però, tutta la vita forti legami d'amicizia con i partigiani sloveni che condivisero le sue vicissitudini. Orgoglio per la dimensione dei valori che la sua generazione ha saputo difendere e consapevolezza delle terribili sofferenze patite emergono dalla testimonianza di Gastone Millo, operaio antifascista del cantiere San Rocco, comandante partigiano a Muggia di cui anni dopo sarebbe divenuto sindaco: «Dopo i pesanti bombardamenti del 7 e 20 febbraio '45, per un lungo periodo nelle fabbriche fummo costretti a lavorare su due fronti: da una parte per salvare il salvabile dai bombardamenti e dall'altra per occultare dal saccheggio dei tedeschi tutto il macchinario che sarebbe servito per la ricostruzione e la ripresa dell'attività a fine conflitto».
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