ELUANA, QUAL È IL VERO BENE

La vicenda riguardante Eluana Englaro ha suscitato negli ultimi mesi numerosi interventi, riflessioni, prese di posizione, a volte preconcette o strumentalizzanti, che rischiano di far dimenticare non solo la tragedia della persona interessata ma anche il carico di dolore di chi per anni ha condiviso il percorso della persona amata. La storia è nota: Eluana all’età di 20 anni aveva riportato in un incidente stradale un gravissimo trauma cranico e della colonna cervicale.


Trauma che aveva causato uno stato vegetativo persistente, una condizione cioè caratterizzata dalla conservazione di alcune funzioni vitali (come la respirazione e la circolazione del sangue) mentre sono abolite le funzioni della corteccia cerebrale e di conseguenza la coscienza. In altre parole è persa la vita cognitiva mentre viene mantenuta quella vegetativa. Lo stato vegetativo deve venir considerato come permanente (praticamente irreversibile) quando dura da più di 12 mesi (nel caso di Eluana Englaro dal 1992). La vita è mantenuta dagli alimenti somministrati usualmente tramite una sonda, l’urina è ricuperata tramite un catetere vescicale. Non vi sono più contatti con il mondo circostante e la vita è totalmente dipendente dall’assistenza e dalle cure. La condizione di questi pazienti è tragica anche per i propri cari che dopo anni sono consapevoli che non esistono più speranze di ricupero o perlomeno di un ritorno di un barlume di coscienza.


Il padre di Eluana aveva chiesto più volte la sospensione dell’alimentazione artificiale (“mia figlia è morta 16 anni fa”) e dopo lunghe vicissitudini legali la corte di appello civile di Milano, facendo riferimento ad alcuni principi affermati in una sentenza della Corte di cassazione dell’ottobre scorso, aveva autorizzato l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione. Ora una decisione di questo genere necessitava della presenza di due presupposti, della certezza cioè di uno stato vegetativo permanente (più facilmente accertabile da una medicina esperta) e della volontà e delle scelte della persona interessata.


È questo secondo punto, cioè la volontà delle persone e il loro atteggiamento nei riguardi della malattia uno dei punti cruciali che deve venir sempre rigorosamente considerato. Ciò vale naturalmente nel caso di malattie gravi e progressivamente invalidanti (ricordiamo il caso Welby) come pure è più che legittima la volontà di affermare o di negare il proprio consenso a trattamenti sanitari quando, in caso di malattie gravi o terminali, non si sia più in possesso della capacità di intendere e volere (“direttive anticipate” o “testamento biologico”).


Vi sono a proposito delle scelte nei riguardi di malattie che così radicalmente possono condizionare la nostra vita posizioni, come ricorda il senatore Marino, differenti o addirittura opposte, entrambe degne di considerazione e di rispetto, di chi ritiene cioè che tutto ciò che offre la scienza moderna debba essere utilizzato a supporto della vita (e ciò specialmente in malattie gravemente invalidanti) e di chi privilegia il diritto di rifiutare trattamenti sproporzionati o che mantengono una vita priva di capacità cognitive e di affetti, vita che non è più tale. Ci sono persone infatti che ritengono che la vita sia sopratutto relazioni con il mondo e che, cancellate queste relazioni, la vita perde il suo significato.


Questo diritto di accettare o di rifiutare la cura o le cure fa parte dei nostri spazi di libertà ed è riconosciuto sia nella nostra Costituzione (“nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge”) sia nella Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina di Oviedo (ratificata dal Parlamento italiano nel 2001), che ha riaffermato che qualsiasi intervento medico effettuato senza il consenso della persona interessata deve ritenersi illecito.


La Convenzione precisa inoltre che nel caso in cui il paziente non sia in grado di esprimere la propria volontà si deve tener conto dei desideri precedentemente espressi. Gli stessi concetti sono infine presenti nel Codice italiano di deontologia medica, dove viene riaffermata l’importanza e l’obbligatorietà del consenso esplicito e informato del paziente e, qualora il paziente sia “incapace”, deve essere evitato ogni accanimento terapeutico,tenendo conto delle sue precedenti volontà. Si tratta in questi casi di un’astensione da forme più o meno evidenti di accanimento terapeutico e non (come è stato alle volte impropriamente affermato) di eutanasia, atto mediante il quale si vuole abbreviare la vita causando attivamente la morte.


Ora nel caso di Eluana i giudici della Corte di appello di Milano hanno ritenuto, in base a prove e testimonianze, che “la straordinaria tensione del suo carattere verso la libertà“ e la sua concezione della vita erano inconciliabili con la perdita totale e irreversibile delle proprie facoltà psichiche e la sopravvivenza solo biologica del proprio corpo. A me sembra siano stati così rispettati i principi di una corretta pratica medica (irreversibilità dello stato vegetativo) così come la volontà della paziente e i suoi spazi di libertà.


Due eventi hanno però riaperto in questi giorni la vicenda di Eluana e cioè la Camera ha approvato un provvedimento in cui viene sollevato un potenziale conflitto di attribuzioni, contestando alla Cassazione e alla Corte di appello di Milano pronunciamenti e decisioni giudicati come un “esproprio della funzione legislativa”, un’invasione di campo” da parte del potere giudiziario, mentre la Procura di Milano ha presentato ricorso contro l’ordinanza della Corte di appello. Il primo provvedimento, che rischia di essere un nuovo conflitto politica-giustizia, è alquanto paradossale, tenuto conto che per anni il nostro Parlamento è stato politicamente e culturalmente incapace di legiferare in merito e che numerose proposte di legge, riguardanti il consenso informato e le dichiarazioni di volontà, sono state inutilmente (malgrado l’impegno di alcuni, del sen. Marino in particolare) affrontate e discusse nelle commissioni parlamentari.


Certo è che in questa drammatica ma anche triste storia si sono trovati commisti sensibilità e culture diverse, alti principi e misere convenienze politiche, rigore ideologico ma anche una preoccupante mancanza di pietas. Viviamo un periodo della storia umana nel quale aspetti sempre considerati come “naturali” (la nascita, la malattia, la morte) possono venir modificati e manipolati dalla scienza e dalle tecnologie. Si stanno così creando e si sono create delle zone di frontiera, delle zone grigie dove, come ha detto il cardinale Martini, “non è subito evidente quale sia il vero bene... ed è buona regola astenersi dal giudicare frettolosamente e poi discutere con serenità, così da non creare inutili divisioni”.

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