Falso marchio “Made in Italy”: in otto finiscono a processo
Intercettato dalla Finanza a Villesse un carico di 5.191 tra lampade a Led e prese: gli articoli secondo l’accusa venivano fabbricati all’estero e spacciati poi per italiani

Il marchio Made in Italy era stato ritenuto “sospetto”, apposto su una serie di colli contenenti materiale elettrico. Ciò non foss’altro perché il carico della merce trasportata in un autocarro Iveco Daily fermato dalle Fiamme Gialle nei pressi del casello di Villesse, era stato effettuato in Romania, all’interno del deposito di un’azienda.
Da questa vicenda è scaturito il processo in corso al Tribunale di Gorizia, a carico di otto imputati, tra presidenti e componenti dei Consigli di amministrazione di tre società con sede in Veneto e in Emilia Romagna, in qualità di rappresentanti legali, proprio in ragione dell’utilizzo del marchio italiano su prodotti per l’accusa «non fabbricati» dalle aziende in questione.
Era il 19 aprile 2019. Nel corso dei controlli la Finanza aveva proceduto al sequestro della merce, 5.191 articoli, tra prese e lampade a Led, riportanti la presunta «falsa indicazione di origine italiana», unitamente ad alcuni documenti forniti dall’autotrasportatore, dipendente dell’impresa rumena. Era l’incipit delle indagini eseguite dalla Gdf di Gorizia che era risalita alle società italiane, una ritenuta “importatrice” e due “destinatarie” dei prodotti. Merci, pertanto, la cui «effettiva produzione» sarebbe stata ricondotta al sito produttivo straniero, dove sarebbe avvenuta «l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata».
L’attività inquirente, coordinata dalla Procura della Repubblica di Gorizia, era proseguita anche con le perquisizioni nelle tre aziende italiane, in una delle quali erano stati posti sotto sequestro ulteriori materiali, nello specifico 1.757 corpi illuminanti a Led.
Nell’ambito del processo, l’ipotesi di accusa contestata, in particolare, fa riferimento all’articolo 517 del Codice penale, in ordine alla «vendita di prodotti industriali con segni mendaci». In altre parole, per la pubblica accusa il marchio “Made in Italy”, apposto sulle confezioni e su alcuni prodotti, poteva «indurre in errore» l’acquirente circa il luogo di fabbricazione e lavorazione.
Il procedimento, davanti al giudice monocratico Lucia Vidoz, era iniziato il 9 maggio 2023, gli accertamenti collocati tra il 19 e il 30 aprile del 2019, a Gorizia, Villesse e nella provincia di Treviso. Il dibattimento è tuttora in corso, al Tribunale di Gorizia, completati i testi del pubblico ministero, si è giunti nella fase dedicata ai testimoni delle difese.
La prossima udienza, fissata il 6 ottobre, ne prevede sette. Ad assistere gli imputati sono gli avvocati Vincenzo Cinque e Virio Nuzzolese, del Foro di Udine, Andrea Biasia, di Vicenza, e Patrizia Vettorel, di Venezia. Difese che, invece, sostengono univocamente la piena legittimazione dell’utilizzo del marchio “Made in Italy” proprio in virtù del fatto che tutti i materiali erano prodotti dalle tre imprese italiane e, attraverso specifici contratti, venivano poi trasferiti in Romania per un’attività di mero assemblaggio, tanto che a farne fede era l’esiguo costo di quell’operazione. Su tutto pertanto è evidente il discrimine tra pubblica accusa e difese dato dal luogo di fabbricazione.
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