I martiri di Otranto e gli italici intrighi

di VITO BIANCHI
Morirono perché non potevano essere schiavi. Magari, qualcuno fra gli ottocento cosiddetti "martiri" di Otranto, quelli che papa Francesco ha dichiarato santi nel 2013, dopo un travagliato e plurisecolare processo di beatificazione, avrebbe anche scelto la schiavitù pur di aver salva la vita.
E invece, nell'estate del 1480, quegli sventurati non ebbero nemmeno questa possibilità. Troppo indigenti per pagarsi un riscatto che, pure, i più facoltosi non esitarono a versare: con 300 ducati a testa, una ventina di abbienti signori poté scampare alla strage e riottenere la libertà. Al contrario i fanciulli, le ragazze più belle e gli adolescenti migliori, presi come schiavi, verranno trasferiti a Istanbul.
Le schiave che resteranno nel Salento saranno messe a fare il pane per l'esercito turco da mattina a sera, e "ritenute per uso loro". Gli inservibili, i non più tanto giovani per essere schiavizzati (e fungere quindi da merce di scambio), gli impossibilitati a soddisfare le esose esigenze di taglia - per lo più maschi adulti scampati all'eccidio - vennero condotti al cospetto di Gedik Ahmed Pascià sul colle della Minerva, poco fuori città. Là, dinanzi al padiglione appositamente predisposto per il sangiacco, coi preziosi tappeti che ne annunciavano la maestà sin dalla soglia, tutto l'orrore che era stato sperimentato dagli Ottomani nelle campagne balcaniche, tutto il terrore che era stato reiterato nelle precedenti carneficine di Caffa, di Zante e di Itaca ebbero un'ennesima, tremenda replica.
Codici di guerra
L'inesorabilità dei codici guerreschi imponeva ai Turchi di punire esemplarmente il rifiuto alle proposte di resa, la resistenza disperata che era stata opposta alle forze soverchianti. L'olocausto andava celebrato spettacolarizzando le liturgie del dolore, conferendo una calcolata teatralità allo sterminio dei vinti, con lo scopo di scandire visivamente l'ineluttabilità della sconfitta e consacrare la fama sinistra, terrifica, del comandante ottomano.
L'enfasi dell'ecatombe rispondeva a una precisa strategia di "deterrenza terroristica", diretta a inibire psicologicamente le popolazioni delle località da aggredire nelle settimane seguenti. Non vi fu dunque niente di religioso nel massacro otrantino, che più prosaicamente era lo strascico di una contesa atroce, la maniera cruenta, terribile eppure usuale, di regolare nelle guerre i conti con gli sconfitti. Non vi fu alcuna richiesta di abiura, nessun ricatto di fede o martirio cristiano: gli eventi erano ormai giunti a un punto di non ritorno.
I turchi alle porte
Nella cattedrale di Otranto, all'interno del sacello che, con la sua sagoma ottagonale, imita il Santo Sepolcro di Gesù Cristo a Gerusalemme, ancor oggi i resti dei "poveri cristi" salentini rappresentano l'epilogo di ambizioni, ripicche, titubanze, intrighi, paure, vendette, sogni cullati a mille miglia di distanza da sultani e re, signori e condottieri. Fra le vetrate del santuario è sigillata tutta la sacralità delle vittime ignare, delle persone escluse crudelmente dal mondo, nell'indifferenza per gli inermi, per gli innocenti, per il quotidiano della Terra, secondo un refrain ciclico che serpeggia imperterrito, cinicamente, e che ben poco c'entra coi conflitti religiosi, con gli scontri di civiltà.
Ci fu una molteplicità di intrecci in una fase decisiva per le sorti della storia mediterranea, quando l'impero ottomano era in prepotente espansione verso l'Europa e l'Occidente. Per sedici lunghi anni, dal 1463 al 1479, invano Venezia aveva cercato di contrastarne l'avanzata con una dispendiosissima guerra. Sola contro un avversario d'immane potenza, abbandonata al proprio destino dalle signorie italiche ed europee, la Repubblica di San Marco aveva perso numerose basi commerciali (in primis Negroponte), e aveva tremato, con gli Ottomani alle porte: dal 1472 al 1478 il Veneto e il Friuli erano stati sconvolti a ripetizione dalle milizie irregolari degli akinci, i razziatori di frontiera arruolati dai Turchi nelle contrade balcaniche tra contadini che, indifferentemente, potevano essere cristiani o musulmani. Pagati col solo bottino che riuscivano a procacciarsi, quei predoni partivano per i saccheggi con uno o due cavalli di scorta, affinché potessero trasportare prigionieri da schiavizzare e beni da tesaurizzare o commercializzare.
La tattica di Gengis
Le loro azioni - riprendendo le antiche tattiche centro-asiatiche che già i Mongoli di Gengis Khan avevano adottato con successo nel XIII secolo - servivano a battere i territori nemici prima dell'intervento dell'esercito regolare, ovvero a creare un diversivo rispetto a un attacco ben più massiccio, programmato magari da tutt'altra parte dal grosso delle truppe.
Le terre fra Isonzo, Tagliamento e Livenza, il Goriziano coi distretti di Cervignano, Udine e Cividale, Monfalcone e San Daniele, Pordenone, Cordenons e Sacile avevano conosciuto la furia turca (favorita - si malignava - dagli Asburgo e dal conte di Gorizia per mettere alle strette Venezia).
Il terribile Iskender
Fra Medea e Cormons, il terribile Iskender, un rinnegato originario della colonia genovese di Pera che aveva assunto il governo della circoscrizione bosniaca, s'era accampato con le sue devastanti soldatesche nella località che per secoli verrà emblematicamente chiamata Ciamp dai Turchs. Dalla sommità del campanile di San Marco i Veneziani avevano dovuto contemplare il bagliore dei fuochi che bruciavano le campagne friulane nelle notti di paura. La popolazione del contado si era rifugiata in massa nei centri fortificati o si era data alla macchia.
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