I morti della passerella e i ritardi sull’amianto tra le “croci” del cantiere



La storia della sicurezza sul lavoro nel cantiere navale di Monfalcone non è lineare, perlomeno fino alla metà dell'ultimo decennio. Lo delinea la tesi con cui Enrico Bullian, sindaco di Turriaco, ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Scienze umanistiche indirizzo storico e storico artistico all'Università di Trieste e che l'autore è stato chiamato a illustrare a Bruxelles, all'European trade union institute, il centro indipendente di ricerca e formazione della Confederazione europea dei sindacati. Se nella fase della nascita, fino alla Prima guerra mondiale, la stampa socialista parlava di quello di Monfalcone come del "cantiere della morte", ponendo la questione, nel ventennio fascista e durante la Seconda guerra mondiale l'approccio, secondo la tesi, fu "verticistico e celebrativo". Nel 1941 avvenne comunque il peggiore infortunio collettivo della storia del cantiere di Monfalcone con 9 decessi, passata alla memoria come la strage della passerella. Dal secondo dopoguerra al 1965 la fase rimase “difensiva” per i lavoratori, segnata ancora dalle discriminazioni sindacali e dalla monetizzazione del rischio, ma nel 1961 fu istituito il servizio di sicurezza aziendale. Nel 1965, a segnare il passaggio al periodo successivo, fu la pubblicazione da parte della Fiom di Monfalcone di un Libro bianco, dove si denunciavano le pesanti condizioni di lavoro ai Crda di Monfalcone. L’avvio dei “lunghi anni Settanta” si realizza proprio tra quell'anno e il 1972 con l'inizio della lotta operaia per una maggiore salute, con alcuni momenti “epici” come i due cortei nel 1968 e nel 1972 a Monfalcone contro gli “omicidi bianchi” nel cantiere (quasi una ventina in pochi anni) e l’accordo del 1971 che consentì l’ingresso dell’Istituto di Medicina del lavoro dell’Università di Trieste nello stabilimento. I “lunghi anni Settanta” sono quindi la fase di maggior attenzione sociale verso la gestione della sicurezza sul lavoro a Monfalcone e, più in generale, nell’Italia: qui si collocano una serie di conquiste raggiunte dagli operai dell’Italcantieri (gli aspiratori, la turnazione per le lavorazioni pericolose, la “fascia di rispetto”, le “ferie nocive”, le pause di ristoro, la modifica dell’organizzazione del lavoro con maggior ricorso al preallestimento). «La crisi produttiva, iniziata nel 1977, raggiunse l’apice di cassaintegrati, oltre 2 mila in cantiere, nel 1983-1985, con la parallela crisi della “linea sindacale” sulla salute - spiega Bullian -. Si concluse la produzione delle superpetroliere e delle imbarcazioni per la Marina Militare e, a partire dalla fine degli anni Ottanta, si costruiscono navi da crociera in un “nuovo” ambiente di lavoro, caratterizzato dalla catena degli appalti, dal trasfertismo e dalla nuova immigrazione, con situazioni che sfiorano il caporalato. Esplode l’epidemia da amianto e, dopo una fase senza infortuni mortali, questi riappaiono con gli anni Novanta». Dalla comparazione con altre realtà emerge comunque che all’Arsenale triestino San Marco e al Cantieri dell’Alto Adriatico di Muggia furono raggiunte intese aziendali molto avanzate che, nel 1977, prevedevano la messa al bando dell’uso dell’amianto. Anche nei cantieri genovesi ci furono, nello stesso periodo, delle limitazioni delle lavorazioni più pericolose (la crocidolite e l’asbesto spruzzato furono vietati dal Cap di Genova nel 1977). —



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