Il fantasma di Sant’Elia lungo la Trieste-Erpelle

Il fabbricato in completo abbandono era il più a est in territorio oggi italiano Fu abbandonato a fine anni ’50 dalle Fs, che poi smantellarono i binari
Di Igor Buric

Il cancello arrugginito cigola al vento e la rete che dovrebbe vigilare sulla maestosa stazione di Sant’Elia è sfondata. Il tempo sembra essersi fermato, l’uomo assente: madre natura ha ricolonizzato la nobile rovina coprendola d’oblio.

A Draga Sant’Elia, lasciata l’ex caserma della Polizia di Stato sulla destra un sentierino prosegue verso l’alto. I primi metri sono asfaltati, poi il terreno diventa sterrato e comincia il viale dell’abbandono. Dopo una manciata di passi ecco apparire la stazione. Anzi, il fantasma della stazione. Sotto la sterpaglia il passato riemerge, piegato dal degrado. Dal terrazzo del piano superiore l’edera cola a picco sull’altissima porta d’ingresso, murata da mattoni color arancio.

Dietro la porta tombata «il macchinista Michele Zahar aveva una piccola stalla, nell’epoca in cui le stazioni fungevano ancora da alloggio al personale di servizio – racconta Bozi Percich, 64 anni – e proprio nell’edificio di Draga Sant’Elia nacque mia madre, la figlia del macchinista». Era il 1907 e la linea Trieste-Erpelle era in vita da due decenni: le Ferrovie italiane decisero di soffocarla alla fine degli anni Cinquanta. Cinque gallerie, sei ponti, 16 chilometri di binari, sette viadotti in muratura, innumerevoli caselli, quattro stazioni (Sant’Anna venne rasa al suolo nel ’70). E ancora una fermata, canali di regimentazione dell’acqua, profondissime trincee scavate nella roccia viva, 164 piccoli manufatti. Tutto finito.

In Slovenia la Trieste-Erpelle si agganciava alla Divaccia-Pola, arricchendo la ferrovia “Istriana”. Da Trieste, via Erpelle e Divaccia, si arrivava a Lubiana e nella pancia dell’Europa. Nella direzione opposta, invece, la strada di ferro conduceva a Pola attraverso i paesini dell’entroterra istriano.

Nel cortiletto del fabbricato perduto, l’erbaccia oggi massacra le antichissime scale di pietra che portano alla pista ciclabile. Il rettilineo, su cui ora corrono le bici, era il letto del fiume di binari che furono smantellati dalle Ferrovie italiane. Partito dalla stazione di Sant’Elia nell’aprile 1966, il treno “ramazza” giunse a Campo Marzio (terminal nostrano della Trieste-Erpelle) nell’agosto dello stesso anno, lasciando dietro sé il deserto. Mentre le Ferrovie liquidarono la tratta sul territorio italiano, le Ferrovie jugoslave – con lungimiranza - costruirono due nuovi rami, elettrificando quello lungo la valle del Risano che serve ancora il waterfront di Capodistria.

Al momento dunque il destino della gloriosa stazione di frontiera è fatto di silenzio e rovi. «Eppure – spiega Roberto Carollo del Museo ferroviario di Campo Marzio – i nostri ferrovieri e quelli jugoslavi furono veri ambasciatori interculturali, i primi ad aprire crepe nella cortina di ferro, aiutandosi sempre fra loro, malgrado la situazione politica fra i due Paesi fosse disastrosa». Anni in cui piovvero storie da Far West.

Al trattato di Parigi seguirono tensioni tremende. Il tempo di percorrenza fra Trieste e Pola raddoppiò: da tre a sei ore. Alla stazione di Sant’Elia i controlli e le perquisizioni da parte degli anglo-americani erano interminabili. Sia a scapito di civili, che di ferrovieri. Al confine jugoslavo, distante soli 300 metri, idem. Non solo: la polizia jugoslava scortava i treni quasi fin Pola.

I ferrovieri però non vollero sentire il richiamo del sangue che bagnò il Carso in quegli anni. Anche nei periodi più rigidi, grazie alla collaborazione capillare del personale, i giganti di ferro continuarono a fischiare fino a Erpelle. Eccezion fatta per il ’47-’48, quando la tratta italiana venne limitata alla stazione di Sant’Antonio-Moccò, a causa delle scariche di mitra sparate dai granicari (le autorità jugoslave di frontiera) sui convogli in corsa.

Oggi l’epopea è finita e le Ferrovie hanno messo in vendita la stazione di confine più orientale dell’intera Penisola. Aspettando un acquirente che la salvi da morte certa, Sant’Elia s’inabissa così nel sepolcro della memoria.

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