«Il nostro aiuto agli ultimi nel segno dell’amicizia»

Via di Romagna 22, sede della Comunità di Sant’Egidio. La casa conserva ancora una certa misticità. Negli anni ’50, questo edificio era un monastero che ospitava le suore dell’ordine di San Giuseppe: a Trieste, avevano il compito di preparare gli addobbi nelle chiese e di occuparsi degli arredi sacri. «Essendo un ordine piuttosto limitato, a un certo punto tornano alla casa madre – comincia a raccontare Emanuela Pascucci, responsabile del Centro di Solidarietà –. Nel 1975 Claudio e Duja Cramer acquistano questo stabile e cominciano ad abitarci». Sono persone molto religiose. Lui muore nel 2010 e l’abitazione viene donata alla curia, con la possibilità per Duja di continuare a vivere dentro. Presto, la signora trova questo spazio troppo grande, pesante e doloroso da gestire e perciò decide di chiuderlo. «Ma nel suo cuore rimane il problema di come far rivivere la casa – continua Emanuela – che non doveva essere rivenduta ma data ai poveri». Nel 2014 Duja incontra la comunità di Sant’Egidio, ora presieduta da Paolo Parisini.
Il centro della solidarietà
Assieme a Loredana Catalfamo, un’altra referente del gruppo, entriamo nella cappelletta, dove si celebrano ogni settimana alcune messe. «Gesù si identifica con il povero, gli ultimi non sono gli assistiti ma parte della comunità». Ci spostiamo nella stanza che ospita il Centro di Solidarietà: grazie al sostegno della Fondazione Cr Trieste, è un’attività che aiuta più di 1.200 persone. «La nostra porta è sempre aperta. Il sabato pomeriggio entra chiunque e riceve ascolto. Le nostre risorse sono limitate ma si cerca di rispondere con un pacco della spesa». Un piccolo contributo economico che diventa un aggancio per raggiungere diverse necessità. Con Emanuela e Loredana saliamo le scale ed entriamo nel giardino. Un posto raccolto e curato che regala una buona qualità d’uva che ogni anno viene distribuita alle persone in difficoltà. Poi, in una grande sala: era il soggiorno dove Claudio e Duja accoglievano i tanti ospiti, sulle note di un pianoforte. Ora è utilizzato per gli incontri della Comunità. Seduti al tavolo del salotto, gli operatori raccontano il cammino di Sant’Egidio a Trieste: una storia di impegno sincero e gratuito, dove ricorre spesso la parola “amicizia”, quella che rende i volontari e gli accolti una comunità unica, dove si annullano le differenze. «Veramente si confonde chi serve e chi è servito», fa notare Federica Marchi, che coordina le attività giovanili.
La scuola popolare
Verso la fine degli anni ’80, un gruppo di studenti liceali, stimolati da un’idea della coetanea Valentina Bach (ora segretaria generale del Collegio del Mondo Unito), decide di vivere un’esperienza “di amicizia profonda”, dedicandosi agli altri. Scoprono così le periferie della città, da Valmaura a Melara. Droga, alcol, disagio scolastico. Iniziano a seguire le famiglie, dando vita alla Scuola Popolare, ispirati a don Milani. «Il passo successivo è stato allungare il percorso dell’autobus e arrivare a Borgo San Sergio – ricorda Emanuela – lì c’era il grande campo nomadi che ospitava più di 200 persone. Ha significato, per tutti, capire un altro pezzo di storia che altrimenti non avremmo mai compreso». Negli anni ’90 il bus porta gli amici di Sant’Egidio a San Giacomo, dove incontrano le problematiche diffuse tra gli anziani. «La vecchiaia di per sé non è una povertà ma se accompagnata dalla solitudine lo diventa». In seguito la Comunità, che nel frattempo si è allargata, coglie l’invito di don Mario Vatta e scende sulla strada, incontro ai senza tetto; lì si trova ancora oggi, dove si occupa della distribuzione delle cene alla stazione ferroviaria. «Il panino è un pretesto– dice Emanuela – per poter chiedere “chi sei” e “come stai”».
La vita di Mario
Sono vicende di sofferenza che gli operatori non dimenticano. Vicende con cui vengono a contatto in modo ravvicinato e che, spesso, cambiano il loro modo di approcciarsi alla vita. «Vorrei raccontare una storia – rivela Emanuela – che per me è un simbolo. Mario era un anziano ottantenne, completamente solo. L’avevamo incontrato in piazza San Giacomo, mentre inveiva contro i piccioni e i bambini. Ci siamo avvicinati. Ci siamo seduti più volte sulla sua panchina e siamo diventati amici». Così, nei primi anni Novanta, quando ancora non esistevano i programmi sociali, abitativi e sanitari di oggi, come le Microaree, un gruppo di ragazzi della Comunità di S. Egidio entra nella casa di Mario. Un appartamento poverissimo, sporco. «Ci facevamo ispirare dal Vangelo quando dice che Gesù guarisce il povero, il malato e il lebbroso, e non lo scansa. Il primo pranzo di Natale, come succede in grande a Roma alla Basilica di Santa Maria in Trastevere, lo abbiamo fatto proprio con Mario e un’altra nostra amica». E così, l’anno successivo gli Amici diventano 4 e ora la Comunità, il 25 dicembre, riunisce alla Stazione Marittima fino a 400 persone. «Non è un’immagine di beneficenza – puntualizza Emanuela – è l’icona dell’amicizia che noi viviamo tutto l’anno. Ora Mario rivive nel nostro ambulatorio a lui intitolato perché è la prima persona di cui ci siamo occupati dal punto di vista sanitario». E poi, tra le storie rimaste nei cuori degli operatori, c’è quella di “Figlio di un cane” che si faceva chiamare così perché il suo nome non se lo ricordava. Ma in molti, a Trieste, si ricorderanno anche di Gianni. Era facile notarlo nei dintorni di Strada del Friuli, mentre camminava scalzo, con addosso una giacca militare. Era appassionato di speleologia: ogni grotta e ogni pertugio di quella zona carsica erano diventati suoi. Dopo aver perso per l’ennesima volta il lavoro, aveva deciso di vivere in una dolina, dentro una tenda. Aveva sfidato le intemperie, i lunghi inverni e la Bora. Spesso gravitava in stazione per prendersi un po’ di caldo e lì aveva incontrato i volontari di Sant’Egidio. «Mi sono sempre chiesta come avesse fatto a resistere – dice Emanuela –. Lo abbiamo accompagnato per anni e alla fine aveva un serio problema di salute e siamo riusciti a fargli avere una casa popolare. “Il buso nel muro”, lo chiamava, perché non era più “un buso nella terra”». E poi c’era Alina, che per sopravvivere alla strada si accompagnava con personaggi poco raccomandabili, che la picchiavano. «Siamo riusciti a diventare amici e le abbiamo pagato l’affitto di una roulotte per lei e per il suo compagno».
I flussi migratori
L’arrivo dei nuovi flussi migratori, spinge nell’ultimo decennio la Comunità in Barriera Vecchia, nell’ex parrocchia di don Paolo Iannaccone. Qui i volontari incontrano «i nuovi cittadini», qui rinasce la Scuola per la Pace e quella di italiano. «Abbiamo fino a 150-180 iscrizioni all’anno, 14 insegnanti, 12 corsi di cui uno per analfabeti totali», spiega Loredana. Storie di povertà che seguono anche i cambiamenti geopolitici del nostro pianeta. Come nel caso di una famiglia siriana, arrivata in Italia grazie a un corridoio umanitario. O di un gruppo di ragazze dell’Africa, vittime di tratta. «Avevano un grande bagaglio di problemi e tristezze – ricorda Loredana– sono state in silenzio per mesi. Acquisita la lingua, hanno cominciato a raccontare quello che era accaduto a bordo dei barconi che le avevano portate in Europa». Ammassate nella stiva, tra decine morti. Ma nella Comunità di Sant’Egidio un muro portante sono i giovani che aiutano i più piccoli, fanno visite agli anziani, raccolgono la spesa. E tra questi ragazzi c’è Veronica, giovanissima studentessa del Petrarca, con le idee chiare e gli occhi brillanti.
(2 - continua)
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo