In mostra a Padova le pittrici ebree

MILANO. La proposta è nuova e insolita. “Ebraicità al femminile-Otto artiste del Novecento”, mostra unica nel suo genere. E forse singolare che a nessuno abbia mai sentito l’esigenza di far luce su questa importante tranche di pittura italiana. Per la prima volta si accede a un’accurata selezione di opere di artiste esaminate nella doppia identità di donne-ebree.
Il nome trainante è quello di Antonietta Raphaël (moglie di Mario Mafai). Le altre sono Alis Levi, Paola Consolo, Eva Fischer, Adriana Pincherle, Gabriella Oreffice, Lotte Frumi, Silvana Weiller. Beninteso, ad attrarre sono le opere (presenti in mostra una ventina della Raphaël e una decina per ognuna delle altre) ma nello scorrere le biografie che corredano il catalogo, a colpire è la complessità spesso tragica della esistenza di ciascuna e la indistruttibile passionale lucidità nel perseguire la propria vocazione: filo rosso di una mostra carica di grandi emozioni.
Per Antonietta Raphaël, di recente raccontata in un bellissimo libro biografico scritto dalla figlia Giulia (“La ragazza con il violino”, Skira narrativa), il discorso è relativamente semplice.
Anche se faticò a mettersi in luce, fagocitata dal nome del marito, dopo la sua mostra antologica del 1959/60 all’VIII Quadriennale di Roma, finalmente la critica si decise a considerarla “fra i maggiori esponenti dell’arte italiana fra le due guerre”. Lituana, dopo varie peripezie e un lungo soggiorno a Londra, arrivata nel 1926 a Roma “con un violino, uno spartito e le Metamorfosi di Ovidio” si era iscritta ai corsi di pittura dell’Accademia, dove aveva conosciuto Mafai. Fu sua compagna in arte e nella vita. Tre figlie, di cui la politica Myriam. Antonietta, di temperamento fortissimo, durante una vita spesso di stenti, portò con sé la sua ebraicità con il tipico “orgoglio della differenza” che distingue la sua razza e che affiora con rara intensità sia dalla pittura che dalla scultura, cui si dedicò poi esclusivamente.
Sono commoventi i primitivi ritratti dei genitori, o “Mia madre benedice le candele” dipinti naif che riportano al pittore georgiano Niko Pirosmani: raffigurazioni innocenti, quasi infantili. Ma poi la Raphael si evolve e dall’Autoritratto con violino del 1928, quasi surrealista, all’inquietante Autoritratto in tuta blu (1940) alla Lamentazione di Giobbe (1967) il percorso si inspessisce con pennellate violente. La scultura era già il suo interesse principale. I bronzi acefali di “Genesi” e “Re Davide che piange la morte di Assalonne“ (1947) vorrebbe averli modellati Rodin.
Ma anche le altre artiste, con mezzi e modi assai diversi, rivelano l’appartenenza al loro mondo inconfondibile. Sempre con percorsi e raggiungimenti straordinari.
Sono morbidi paesaggi alla Chagall e stupendi “Studi di donna” in puntasecca le opere della molto benestante inglese Alis Levi (1884, figlia di una nobildonna fiorentina e – lei amava raccontare - di un capo berbero, vissuta nascosta durante la guerra, poi animatrice di uno dei salotti letterari più raffinati di Cortina, dove morì quasi centenaria.
Brevissima invece la vita della veneziana Paola Consolo, nipote di Margherita Sarfatti, morta di parto a 24 anni. Eppure riuscì ad esporre alla Permanente di Milano accanto a Sironi, Marussig, Tosi, Carrà, Soffici… Il suo Autoritratto è addirittura considerato un’icona del Novecento. Quasi monocromo sulle tonalità grigio-azzurro, la giovane signora che siede impettita con il cappellino sulle ventitré ha una dignità regale. Piacevoli, ma più banali, i soggetti marocchini, esperienze di viaggi. La pittrice sfuggì alle leggi razziali per ragioni di anagrafe (1909-1933).
Adriana Pincherle, sorella di Alberto Moravia e moglie di Onofrio Martinelli, e la padovana Gabriella Oreffice, - celebre il suo Ritratto di Semenghini di 1929 - due grandi artiste ancorate con sgargianti colori alla Sassu su sponde opposte (Espressionismo e Postespressionismo) sono affiancate nella stessa sala.
Lotte Frumi Radnitz (1899-1986) nata a Praga, amica di Kafka, Kokoschka, Egon Schiele, a Parigi frequentò Soutine e Utrillo. Si sposò e divenne veneziana. Poi la guerra, la perdita della casa, la deportazione della madre in un lager, la fuga in Toscana ma, ovunque, continuò a dipingere (molto intensi i ritratti anche se i paesaggi furono il suo tema preferito). Tornò a Venezia, in palazzetto Falier sul canal Grande, tra le ultime testimoni di un’età d’oro della cultura europea nella magica atmosfera lagunare.
Delle otto, Eva Fischer (1920)- alla quale è dedicata una sala centrale della mostra - è l’unica artista ancora in attività. Croata, il nazismo la privò di oltre trenta suoi familiari, di cui il padre, rabbino capo talmudista. L’enormità della tragedia la relegò per anni nel silenzio più totale, esprimendosi solo attraverso la pittura. (“Addio”, del 1949: mani che gridano attraverso una finestra sbarrata dal filo spinato, sono una immagine lancinante). Viaggiò. Infine si stabilì a Roma facendo parte del gruppo di via Margutta, con Mafai, Guttuso, Capogrossi. Dalì si innamorò dei suoi “Mercati”, Picasso la esortò a continuare, con de Chirico fece lunghe passeggiate, a Parigi divenne amica di Chagall. Fu la prima donna a esporre al Museo delle Belle Arti di Osaka. Ennio Morricone tradusse i suoi cromatismi scrivendo per lei brani indimenticabili. Così la Fischer esorcizzò il dolore della sua vita, facendo leva sul lato solare del suo temperamento con temi riproposti in cicli luminosi: Interni, Mercati, Capri…
L’ultima sala è dedicata a Silvana Weiller (1922-) pittrice, poetessa, scrittrice, critico d’arte e letterario, protagonista dell’intellettualità padovana anni ’50 e ’60, figura ancora molto amata in città dove giunse giovane sposa, con alle spalle l’esperienza del campo di raccolta in Svizzera, la drammatica fuga da Milano a piedi attraverso le Alpi (ricordi pubblicati nel 2008). Nella pittura, ha elaborato sperimentazioni materiche grevi, di colore squillante (Il Prato verde, Muri in ghetto, Alberi di luce). La sua ultima personale è del 2011 (Padova, Gran Guardia).
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