La doppia faccia delle mascherine

Il virus ha favorito un surplus di senso civico: un trend che è molto arduo da smentire

TRIESTE Le indossiamo tutti e non le toglieremo tanto presto, dunque è normale che attorno alle mascherine continuino ad accumularsi molti interessi da parte di chi agisce come fornitore. Conosciamo i problemi che si sono creati nella sanità e poi nella cittadinanza, quando, senza apparente preavviso, è sopraggiunta questa esigenza.

Ora che la situazione sembra sotto controllo, quasi ogni giorno apprendiamo qualche nuova iniziativa, tipo l’affidare un piccolo segmento della produzione ai detenuti di alcune carceri, o il brevetto di una sorta di megafono incorporato perché nei luoghi di lavoro ci si possa capire meglio. Intanto molti se le costruiscono in proprio, magari con scarso rispetto dei criteri igienici stabiliti ma esercitando almeno un poco di salutare fantasia.

Il dopo Covid 19 tra claustrofilia e claustrofobia
Foto BRUNI Trieste 20.05.2020 Via Torino--la movida dello spritz


Le mascherine – passando dalla parte di chi deve usarle e trasformarle in un’esperienza quotidiana aggiuntiva – risultano al tempo stesso un fastidio e un’opportunità ormai acquisita, perciò potremmo dire che abbiano una “doppia faccia”, quella ovvia dell’obbligo e quella molto meno ovvia di una paradossale libertà.

Siamo obbligati a indossarle in pubblico, sul lavoro e perfino a scuola (quando i nostri figli torneranno nelle aule). Sono un peso, ci impediscono di respirare bene, lo sappiamo tutti per esperienza personale e lo vediamo nell’aspetto più inquietante in coloro – come nella sanità – che devono portarle per ore torturando il proprio viso.

Eppure, quando beviamo un caffè al bar o le abbassiamo un istante per tirare il fiato, restiamo sorpresi che intorno a noi quasi tutti le tengano addosso senza problemi, con grande tranquillità. Non abbiamo motivo di credere che questa “tranquillità” sia una facciata di apparenza: sembra proprio il contrario, cioè che non vi sia alcuna finzione, ed è allora difficile convincersi che ci siamo semplicemente limitati a interiorizzare l’obbligo trasformandoci in docili esecutori delle regole di sorveglianza.

Quelli che vedono solo gli effetti dell’autosorveglianza (Foucault docet?), prodromo della società autoritaria cui la pandemia sta allenandoci, dovrebbero mettersi d’accordo con se stessi sul carattere degli italiani, una volta indicato come insofferente e l’altra volta equiparato alla docilità delle pecore.

L’uso delle mascherine è oggi planetario e anche da noi non sarà di breve durata. Assembramenti, “movide” e quant’altro, cioè il contributo inconsapevole al rischio di favorire la recrudescenza del contagio, non bastano a cancellare il fatto che le mascherine sono entrate responsabilmente nel corredo della normale vita quotidiana.

Ma non è solo questione di avere acquisito un maggiore senso di responsabilità, di esserci resi conto che l’egoismo individuale non paga in questo caso, anzi può ritorcersi contro noi stessi se non includiamo in questo “noi” la presenza effettiva di coloro che ci stanno attorno, con cui ci relazioniamo.

Che il virus abbia favorito un plus di senso civico mi pare molto arduo da smentire, nonostante possiamo accampare prove del contrario. Perché, poi, dovremmo affrettarci a negarlo? Questo godimento dell’essere masochisti non è così comprensibile. Comunque, l’altra faccia delle mascherine non consiste solo in un’acquisizione di responsabilità, potrebbe perfino avere a che fare con una curiosa modulazione della nostra scontata identità.

Indossando una piccola maschera neutra, che lascia scoperti solo gli occhi, non sempre risultiamo subito riconoscibili. E se anche diciamo qualche parola, la voce stessa un poco alterata può risultare ingannevole. Credo che si nasconda, negli incontri che aggiungono una distanza insolita tra le persone, qualcosa di simile al piacere di non farsi riconoscere immediatamente, appunto un modulare la nostra identità rendendola per un attimo sfuggente. Come se l’introduzione di un momento di perplessità potesse renderci più interessanti per l’altro e soprattutto ai nostri stessi occhi: un’oscillazione dell’identità che forse ci arricchisce, noi abituati a un rispecchiamento troppo normalizzato.

Accennavo al fatto che anche i detenuti sono stati incaricati di fabbricare mascherine. Aggiungo che il nome dell’associazione che si è assunta questo compito, “Ricuciamo”, può servirci, forse involontariamente, a capire l’altra faccia delle mascherine, dato che si tratta proprio di un ricucire un’identità ormai slabbrata. Un’identità personale incerta, molto spesso sdrucita nella sua scontatezza.

Roger Caillois, uno dei maggiori teorici contemporanei della complessità del gioco, ci ha insegnato attraverso la sua idea di mimicry l’importanza della maschera che ormai tendiamo a dimenticare: tutti presi dal gioco agonistico, che è il regime di verità dell’attuale società, siamo inclini non solo a sottovalutare i rischi dell’aleatorietà ma soprattutto a rimuovere quasi completamente il piacere del non venire immediatamente riconosciuti.

Ecco l’altra faccia delle mascherine, quella giocosa, ma altrettanto importante, che fa tutt’uno con la nostra risposta civile alla fastidiosa limitazione della libertà che dobbiamo accettare. —

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