La piccola Rahida sepolta a Monfalcone ma prima l’autopsia

Sarà il grembo della terra, quella terra dove sono migrati il suo papà e la sua mamma alcuni anni fa, ad accogliere la piccola Rahida Hossain, nata nella città del cantiere. E venuta alla luce lo scorso 15 maggio al San Polo, nell’unico Punto nascita superstite nell’Isontino alle riforme politiche sanitarie. La sua salma, che ora si trova custodita all’obitorio di Gorizia, sarà rivolta con la testolina verso la Mecca, come è usanza per i musulmani. Nella quiete eterna condividerà il riposo con altri due bambini precocemente strappati alle braccia dei genitori, gli unici islamici al cimitero di via 24 maggio, protetti in un fazzoletto d’erba dedicato dal Comune a queste sepolture. È la volontà espressa dalla famiglia Hossain e resa nota ieri da Jahangir Sarkar, che nel gorgo terribile di dolore vissuto da queste persone, vittime del violentissimo schianto sull’A34, per la figlioletta troppo presto perduta, fa da portavoce, lui che presiede non a caso l’Associazione dei genitori bengalesi.
Ieri mattina ha parlato con il papà Mohammad Ibrahim, 39 anni, in passato un lavoro in cantiere, conosciuto in città con l’appellativo di Shagor, che in bengalese significa “mare”: «Ha pianto per tutta la durata della telefonata – riferisce con mestizia Sarkar –, non riusciva a fermarsi». Ha il cuore spezzato, Mohammad. «Per questa famiglia – prosegue – sarebbe molto difficile portare adesso il corpicino della piccola Rahida in Bangladesh: il papà ha delle fratture e la mamma è ancora in prognosi riservata a Udine». Sharmin, 30 anni, non è in pericolo di vita, ma ha subito seri traumi toracichi e cranici. È ancora ricoverata. Nell’impatto devastante con il Suv Q5 lei e la bambina, ospitate nella parte posteriore della Chrysler su cui viaggiava la famiglia bengalese, hanno avuto la peggio. L’altro fratellino, di 7 anni, è stato dimesso e affidato invece ad amici della sua famiglia. «È a Gorizia con loro – chiarisce Sarkar –, proprio dove stava andando Shagor sabato sera».
Già ieri mattina la comunità bengalese ha preso contatto con il Comune (il sindaco, sua sponte, aveva voluto domenica esprimere cordoglio per una morte che fa piangere tutti), chiedendo all’assessore ai Servizi cimiteriali Giuliana Garimberti se c’è ancora disponibilità di spazi al camposanto di Aris. L’assessore ha confermato, garantendo anche, in caso di necessità e se richiesto, l’organizzazione del funerale. Un rito che, come spiegato, richiede precisi dettami, come la consegna della minuscola bara bianca nelle mani del solo imam, l’orientamento a sud-est della salma e l’assenza di orpelli funebri, fiori o effigi: la tradizione infatti richiede funerali semplici, umili e molto rispettosi. In realtà la salma, avvolta in un tessuto, dovrebbe essere calata direttamente nella fossa, ma in Italia la sepoltura a nudo è vietata e quindi c’è una dispensa in simili casi, così si ricorre a una cassa funebre in legno tenero. Non dovrebbe però essere una questione da risolvere nell’immediato. Il Procuratore generale Massimo Lia, ieri, ha riferito che «quasi certamente si procederà con l’autopsia», e dunque bisognerà attende il nulla osta della magistratura per il rito, come è di prassi in incidenti con esiti fatali. Secondo quanto si apprende da Sarkar la famiglia Hossain non avrebbe ancora nominato un legale di fiducia, ma è evidente che in caso di esame autoptico dovrà per forza di cose incaricare un professionista e un perito di parte. Questioni incombenti, dunque. Ma ora, per Shagor, è solo il tempo delle lacrime. –
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