LA SVOLTA DELLA MODA IL SARTO ORA È STILISTA

di MANUELA PIVATO
Dal bustino con i lacci ai jeans tagliati con il laser, dalle sottogonne con il cerchio ai leggins che promettono di sollevare i glutei, dalle ciocche avvolte nei bigodini ai capelli torturati dalla piastra, dal modesto tacco cinque alle zeppe in plexiglass di altezza siderale. Un secolo e mezzo davanti allo stesso specchio: dalle trisavole alle nipoti, sempre meno vestite e sempre più libere, più sottili ma egualmente assillate dal medesimo dubbio: sarò alla moda?
La moda e la regola del bello. La moda, al contrario della tecnologia, ha un ritmo lento ma costante, raramente butta via qualcosa, non sconfessa il passato, adora il riciclo, mescola gli stili e omaggia vintage e futuro con identica passione. Una diciottenne del Duemila normalmente festeggia in minigonna di lurex ma il ballo delle debuttanti all’hotel de Crillon di Parigi, affollato di italianissime fanciulle in fiore, ogni anno assiste a una sontuosa sfilata di lunghi abiti bianchi di gattopardesca memoria. Il look da Beyoncé evidentemente non impedisce di avere (anche) un’attitudine da Angelica minimizzando così le distanze di 150 anni di moda.
Ogni epoca i suoi testimonial. Legata alla storia, al cinema, alla televisione e ora all’autopromozione grazie ai social network, la moda ha attraversato i decenni sostenuta dalle migliori testimonial di ciascuna epoca. Furono via via le Eleonora Duse, le Alida Valli, le Silvana Mangano, le Ava Gardner a spiegare alle donne di tutto mondo quanto bisognava strizzare la vita, scoprire le caviglie, imbottire il seno (non tutte), accorciare la gonna, disegnare le sopracciglia ad ala di gabbiano e dipingere le labbra di rosso scarlatto. Tutto ciò che le attrici indossavano sul grande schermo diventava subito tendenza, consacrazione e desiderio. Ma era una moda per poche, lontana da quello che sarebbe poi diventato un business che oggi vale un fatturato di oltre 80 miliardi, più i 12 miliardi della sua ombra, ovvero il mercato della contraffazione.
Il fascino del made in Italy. La moda del Regno d’Italia non aveva Instagram né Lady Gaga, non esisteva una Miuccia Prada che potesse insegnare come vestirsi bene né uno Zara che aiutasse a vestirsi bene con poco. C’erano i grandi costumisti, i sarti per le signore ricche e soprattutto c’era la Francia, che non aveva ancora Ines de la Fressange ma tutto il resto sì. I cappellini alla moda, le scarpette con i lacci, le calze di seta, l’audacia dei colori, la preziosità dei tessuti; tutto, fino all’ultimo nastro di gros-grain, doveva possedere almeno un sospiro di Parigi per meritare un ritorno di ammirazione.
Distanze ridotte. Oggi che tutti i negozi hanno tutto, che basta un clic per farsi spedire a casa la cabas di paillettes di Vanessa Bruno o il bikini dal Brasile, oggi che Martin Margiela (diversamente inavvicinabile) disegna la collezione di H&M e gli outlet vendono a un terzo i cappotti della stagione scorsa, oggi che la globalizzazione ha reso la moda molto democratica ma anche più uniforme, il rischio è di perdere quell’identità che la moda italiana ha conquistato con immensa fatica a partire dalla fine della seconda guerra mondiale quando la Repubblica trovò proprio nello stile dell’abbigliamento un elemento di riscatto per risollevarsi dalle macerie.
Da sarti a stilisti. La moda conobbe allora la stessa frenesia della ricostruzione del Paese. Si tiravano su case, scuole, ospedali mentre i sarti ampliavano i volumi, poi li assottigliavano, i tacchi crescevano e l’orlo, impazzito, sembrava lo spread. Gli anni Sessanta, pieni di vita e di fiducia, erano già lì con i colori di Pucci e le creazioni sorelle Fontana. Parigi smise di fare la smorfiosa e iniziò il made in Italy che nei decenni successivi trasformerà la moda in uno fra i più importanti settori della nostra economia.
I sarti diventarono stilisti, alle attrici si aggiunsero le pop star con un incredibile effetto moltiplicatore della diffusione delle nuove tendenze, le calze di nylon svelarono milioni di gambe e la moda iniziò a diventare un colossale giro di soldi, passerelle, top model, locali, boutique e desideri. La rivoluzione del ’68 rovesciò certezze che sembravano granitiche e, dal quel momento in poi, nulla fu come prima.
La corsa al nuovo “per forza”. Ogni decennio doveva assicurare qualcosa di nuovo, anche per far cambiare guardaroba alle signore e foraggiare il business. Gli anni Settanta la minigonna, gli abiti a trapezio, le teste cotonate. Gli Ottanta le spalle imbottite, l’extralarge, i capelli alla Beautiful. Gli anni Novanta una parvenza di minimalismo. I grandi protagonisti dell’Italian style erano già tutti sulle copertine delle riviste: Valentino, Giorgio Armani, Versace, Gianfranco Ferrè, Krizia, Moschino, Dolce & Gabbana, Gucci, Fendi, Roberto Cavalli, Alberta Ferretti, Ferragamo. Negli anni da bere diventarono multinazionali di loro stessi e oggi, nei meno rampanti anni della crisi, marchi a tutto tondo mescolando moda, profumi, arredamento e arte come salvacondotto per il terzo millennio.
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