LA TRIESTE DELL’INGLESE
E l'italiano? La domanda sarà sorta a molti cittadini del Friuli Venezia Giulia. Nelle nostre scuole e università parleremo l'inglese, il francese, lo sloveno, come pure il friulano, il triestino e finanche il bisiaco, il gradese e il resiano.
C’è una curiosa confluenza di pulsioni, nel dibattito pubblico e politico sull'educazione linguistica in regione e a Trieste. Da una parte l'approvazione della legge sul friulano ha determinato, in Consiglio regionale come nei comitati più o meno spontanei di cittadini, una raffica di proposte di tutela delle parlate locali. Dall'altra il sistema scolastico e universitario regionale, ma soprattutto triestino, si segnala per la sua progressiva internazionalizzazione, con l'inglese che fa capolino tra i banchi a un livello persino sorprendente per una città delle nostre dimensioni: tra un paio d'anni, grazie al "filo rosso" tra Scuola internazionale, Università e scuole di specializzazione come Mib e Sissa, Trieste sarà, con Roma, Milano e Torino, la sola città italiana in cui sarà possibile studiare in inglese dall'asilo al master post-laurea.
Ebbene, la confluenza tra la lingua del mondo e il dialetto della Val di Resia è curiosa ma non casuale. La lingua è l'ossatura di una comunità ed è parte essenziale delle identità personali; in essa esprimiamo ciò che siamo e vogliamo diventare, in essa combiniamo e dosiamo, perlopiù senza accorgercene, il duplice anelito ch'è proprio a ogni uomo: socialità e individualità, apertura al mondo e amore per la piazzetta del paese, la ricerca dell'altro e il riparo nel nostro rifugio, l'orticello e l'oceano che ci appartengono entrambi e nei quali volubilmente e con ogni gesto c'identifichiamo. Era perciò inevitabile che l'approvazione della legge sul friulano alimentasse una babele di proposte su lingue e idiomi, come pure un dibattito su un tema finalmente serio e la domanda posta al principio: e l'italiano?
La risposta più profonda che si possa dare è che non esiste contraddizione tra la parlata locale, l'italiano e la lingua straniera. Tutte ci sono proprie ed esprimono esigenze parimenti importanti della nostra vita, ma a livelli diversi che è bene non confondere. Non si studia l'inglese per giocare a pallone con gli amici del piano di sotto, così come non si coltiva il dialetto per lavorare in un contesto internazionale, ch'è il contesto prevalente se non l'unico nel quale si lavorerà in futuro. La parola nativa è quella delle radici e del contatto complice e immediato, del riferimento intuitivo che ci fa sentire a casa. Ma sarebbe miope e goffo farne la lingua da proiettare al mondo, e irresponsabile da parte della politica cavalcarne la retorica culturale, con improbabili tutele e finanziamenti estesi a ogni comunella.
Ogni gruppo ha il suo legittimo orgoglio e aspira allo status di lingua, ma chi scrive non vede gran differenza fra triestino, friulano, bergamasco e ladino: tutti idiomi locali che è bello coltivare e giusto tutelare, ma sarebbe nefasto esaltare. Nelle scelte che saranno responsabilmente chiamate a fare, le famiglie della nostra regione farebbero un grosso errore nel far studiare i propri ragazzi in friulano o - un domani, magari - in triestino. L'inglese e lo spagnolo, o lo sloveno e il croato e ancor più il cinese, aprono orizzonti, i dialetti li chiudono. Le lingue straniere creano comunicazione; la parlata locale, se inebriata a una funzione che non è sua, cessa di esprimere una vitale identità: chiude i contatti e pianta una trincea. E ciò vale a maggior ragione per una città come Trieste, che intravvede finalmente la prospettiva concreta (e non più di sola ovatta) di un ruolo internazionale, e farà bene a stimolare in ogni modo l'apprendimento delle lingue straniere in cui si discorre nei settanta istituti mondiali che qui hanno sede.
Nel medesimo segno, non esiste contraddizione tra il coltivare l'italiano e l'inglese. Barcellona è una grande capitale europea, è orgogliosa del catalano di cui è culla, ma al visitatore si rivolge cordialmente in impeccabile spagnolo e ha una diffusione dell'inglese senza pari nel continente, ospitando una scuola di management e una comunità finanziaria tra le migliori al mondo. La lingua è come la patria: bisogna amare la propria per aprirsi a quella degli altri, e dedicare a tutte il medesimo rispetto, una paziente accuratezza, l'ossequiosa sensibilità che si deve a un corpus di regole, suoni, inclinazioni e armonie che s'è formato nei millenni e non merita una storpiatura del pensiero né il vilipendio stilistico di un messaggino sms, neppure un apostrofo fuori posto. Il decoro e l'apprendimento della lingua ci ricordano il dovere della precisione, la disponibilità per il prossimo e il valore delle piccole fatiche quotidiane. Ci insegnano ad apprezzare la diversa nobiltà dell'inglese e del bisiaco, ma anzitutto ad amare il buon italiano.
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