Le parole orribili sui migranti non vanno rimosse

Viviamo sempre più blindati in una società che tende a dimenticare l’“orrore” prodotto dall’uso di certe parole. Già quelle pronunciate pubblicamente soltanto ieri tendono a sfumare nella nebbia dell’oblio, di quelle di una settimana o di quindici giorni fa non resta alcuna traccia: l’accelerazione mediatica finisce con il cancellare tutto, buono o cattivo che sia, ma forse è proprio il peggio che scompare più in fretta dalla nostra mente. Ricordate quel ministro che aveva chiamato “carico residuale” i migranti lasciati a bordo di una nave delle Ong dopo aver fatto scendere i cosiddetti fragili? E perché mai dovremmo tenere memoria di queste parole, a dir poco infelici, se poi sono stati fatti scendere tutti e il caso si è risolto? Abbiamo già girato pagina, abbiamo ben altro da pensare.
Ma vorrei tornare a un episodio linguistico ancora più impressionante e, a propria volta, subito dimenticato. Qui non era un ministro qualsiasi a parlare, si trattava del primo degli attuali ministri che ha adoperato la parola “bizzarria”, sempre a proposito della questione se permettere o no a tutti i migranti di scendere finalmente a terra. L’appellativo di bizzarri non veniva però attribuito ai migranti ancora bloccati a bordo, bensì agli operatori sanitari che si erano permessi di dare al disagio psicologico (presente nel carico residuale!) un ruolo importante dentro l’idea comune dello star male. Fermiamo il senso di simile episodio prima che sparisca definitivamente dalla nostra memoria. Come se lo star male dovessimo valutarlo esclusivamente sulla base di un corpo ridotto alle sue funzioni fisiologiche. Come se, rivolgendo l’attenzione al cosiddetto disagio o disturbo psicologico, perdessimo tempo su questioni vaghe e marginali anziché occuparci delle condizioni oggettive dei corpi. Nulla di nuovo sotto il sole – potrebbe essere il commento rassegnato – ma come è possibile chiamare tutto ciò una “bizzarria” della medicina? Eppure è capitato, e l’accelerazione mediatica ha rapidamente messo in atto il proprio cancellino multiuso.
Osservo che qui siamo di fronte non solo a un inquietante arretramento culturale, quasi che nulla fosse accaduto negli ultimi cento (!) anni e fossimo rimasti a un desolante oggettivismo scientistico, ma a ciò si aggiunge anche un ulteriore quiproquo che riguarda quegli stessi medici che sono intervenuti permettendosi di dare alla fragilità anche un rilievo psicologico. Quegli operatori sanitari non sono affatto un’avanguardia rivoluzionaria che vorrebbe sconvolgere l’immagine tradizionale del corpo. Molto più probabilmente, sono una retroguardia che è riuscita a orecchiare alcune esperienze avvenute già da decenni nel mondo psichiatrico e magari anche nelle attuali confluenze tra psichiatria e psicoanalisi.
Se riflettiamo per un momento, appoggiando i piedi sul pensiero critico e dunque anche tenendo conto degli immiserimenti ai quali le esperienze più avanzate (come quelle di Franco Basaglia a Trieste) vengono attualmente sottoposte, chiamare “bizzarre” le attenzioni alla psiche, prodotta nell’episodio che sto ricordando, corrisponde a un massimo di ritardo culturale. Si può scendere più in basso?
La rimozione di questo episodio è stata rapidissima, come sta avvenendo per tante altre piccole cancellazioni che punteggiano una navigazione culturale che va avanti un po’ alla cieca e che, di conseguenza, scambia l’essenziale con il marginale, trasformando tutto quanto in una sorta di minima marginalia nei quali il senso è destinato ad annegare. Pensavamo, forse, di esserci lasciati alle spalle bubboni culturali tipo che il corpo è una cosa e la psiche un’altra, poi però, se riusciamo a fermarci un poco a pensare (impresa sempre più ardua), intravediamo nei trionfanti avanzamenti tecnologici (come negarli?) pesanti cadute di pensiero, arretramenti impensabili, di cui magari non ci rendiamo ben conto. Forse basterebbe entrare in un’aula scolastica – intendendo per scuola l’intero tragitto dalle elementari alle prestigiose aule universitarie - per percepire la presenza attuale di dissonanze culturali anche clamorose dovute a quei processi di dimenticanza ai quali tutti siamo sottoposti e che non risparmiano neppure la categoria degli insegnanti.
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