Le storie

di BEATRICE FIORENTINO «L’amore è una cosa meravigliosa» affermava il titolo di un film di Henry King, un melodrammone anni Cinquanta in cui Jennifer Jones e William Holden lottano per un sentimento...
Di Beatrice Fiorentino
Lasorte Trieste 06/12/16 - Anziani, Ida e Bruno Brunetta
Lasorte Trieste 06/12/16 - Anziani, Ida e Bruno Brunetta

di BEATRICE FIORENTINO

«L’amore è una cosa meravigliosa» affermava il titolo di un film di Henry King, un melodrammone anni Cinquanta in cui Jennifer Jones e William Holden lottano per un sentimento contrastato ai tempi della guerra di Corea oppure, come suggeriva Emile Rostand al suo Cyrano, prima che il verso dilagasse come un vero e proprio tormentone sui bigliettini dei Baci Perugina, «un apostrofo rosa tra le parole t’amo». Vinicio Capossela si chiedeva «Che coss’è l’amor?». «Ieri sera era amore, io e te nella vita...» scriveva Alda Merini, un bacio furtivo nella rappresentazione pittorica di Hayez, un abbraccio di corpi per Schiele, un cuore radioso sorretto da due persone che danzano nella fantasia di Keith Haring. Mentre Pier Paolo Pasolini, nel dar voce ai suoi “Comizi d’amore”, attraversava il Paese interrogando la gente di ogni estrazione sociale, da Nord a Sud, da Ovest a Est, consegnando ai posteri uno spaccato sociologico che ancora oggi sorprende per la sua spiazzante attualità. Ma non c’è niente da fare, una risposta univoca sull’amore non esiste. Sul mistero su cui fonda il sentimento più irrazionale e contraddittorio dell’essere umano non c’è artista, letterato o filosofo che non si sia arrovellato fin da tempi così antichi da perdersi nel mito.

Romantico o passionale, platonico, cieco, cortese, “libero” o rigidamente monogamo, etero o omosessuale, cos’è, insomma, l’amore? Cos’è che fa scoccare la scintilla? Attrazione, complicità, chimica? E quale magica alchimia provoca in due persone il desiderio di passare il resto della vita insieme, condividendo gioie e dolori, in salute e in malattia, finché morte non le separi? Nel 1975, in uno dei suoi scritti, Andy Warhol, che al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare era un acerrimo sostenitore delle relazioni di lunga durata, si chiedeva se fosse possibile trovare un amore in grado di durare per sempre. Aggiungendo: «Metti che tu sia sposata da trent’anni e stia preparando la colazione per l’uomo che ami, se lui entra all’improvviso in cucina, gli viene il batticuore? Voglio dire, se si tratta di una mattina qualsiasi, come tante altre... Magari il suo cuore sussulta per la colazione. Fa sempre piacere che qualcuno la prepari apposta per te». «Il prezzo da pagare per l’amore - proseguiva - è avere qualcuno sempre intorno e non essere mai soli, che invece è la cosa più bella. La peggiore di tutte è non avere abbastanza spazio nel letto».

Un tanto a dimostrare che, al di là dell’ideale romantico, la convivenza non è mica una cosa semplice. Forse per questo qualcuno sostiene che il matrimonio sia la tomba dell’amore. E mentre, anno dopo anno, i divorzi aumentano e i matrimoni calano, abbiamo deciso di chiederlo ad alcuni strenui resistenti, se davvero esista l’«amore eterno». Cinque coppie che convivono ormai da cinquanta, sessanta e perfino settanta anni e oggi stesso, dicono, ricomincerebbero tutto daccapo.

Prendi Ida e Bruno, per esempio. Si sono sposati nel 1945, fanno la bellezza di 71 anni di matrimonio. Quello che una volta le lingue affilate avrebbero definito “matrimonio riparatore”, consacrato nel mese di ottobre, pochi mesi dopo il loro primo incontro e alla gioiosa notizia dell’arrivo di un bebè. Nozze semplici, limitate alla sola funzione in chiesa alla presenza di pochi invitati, del sacerdote che ha officiato il sacramento e dei testimoni. I ricordi di Ida e Bruno, come quelli di altri “highlander dell’amore”, affondano in un piccolo mondo antico, ai tempi della guerra, quando la spensieratezza della loro giovane età si scontrava con le ristrettezze economiche, la fatica, i sacrifici, talvolta la paura. «Prima di sposarci ci si incontrava nella piazza del paese, dopo il Rosario - ricordano -. Non si facevano più lunghe passeggiate come accadeva prima della guerra, era pericoloso. C’era ancora chi rastrellava gli uomini per portarli via, e quelli che venivano presi non tornavano più... Qualche volta, però, si andava a ballare. Era un breve alito di leggerezza». Il viaggio di nozze li ha portati da un piccolo paesino dell’Istria a Trieste, ospiti per una settimana da una zia che li ha accolti con un pranzetto speciale per l’epoca: un piatto di lasagne fatte in casa. E al loro ritorno, i due giovanissimi sono perfino riusciti a restituire alle rispettive famiglie buona parte dei soldi che avevano ricevuto in dono «perché - raccontano - non era giusto spenderli tutti, avevamo in mano il frutto di tanto lavoro e fatica». Nel 1947 Bruno si trasferì a Trieste, dove le opportunità di lavoro e di guadagno erano maggiori. Entrato nell’edilizia come muratore, in pochi anni è diventato capocantiere anche grazie alla sua perseveranza nel frequentare un corso serale. Dopo qualche tempo, una volta raggiunto dalla sua sposa, sono riusciti a sistemare un appartamentino dove si è formata una nuova famiglia, fondata su valori tradizionali e senza tempo. Un momento cruciale, quello dell’ingresso in casa, il cui ricordo è ancora impresso nella memoria: «Correva l’anno 1959, il frigorifero e la lavatrice non c’erano e in cucina si cucinava ancora con due fuochi. Il portavivande era sempre da preparare e c’era un bambino, il secondo arrivato, da svezzare». Settantuno anni insieme senza mai un cedimento. Impensabile perfino immaginare la propria vita senza la presenza dell’altro. Ma c’è un “elisir d’amour” in grado di garantire un simile risultato? «Se esiste - affermano - per noi è stato l’insegnamento ricevuto in famiglia. Bisogna amarsi e avere pazienza. E non conosciamo la parola “crisi”. Può capitare di dover affrontare qualche incomprensione, certo, magari ci si tiene il muso per qualche giorno, ma poi bisogna andare avanti».

Nessuna ricetta magica per Edda e Salvo, uniti in matrimonio da sessanta anni tondi tondi. «È importante volersi bene, rispettarsi, prima di tutto. E qualche volta sopportare. Oggi ci si lascia più facilmente, i tempi sono cambiati. Bisognerebbe avere più pazienza e credere nel matrimonio». Edda e Salvo ancora ricordano il loro primo bacio. «È stato bellissimo e ci ha fatti innamorare. Eravamo in una stradina laterale di via dei Soncini. C’era la luna». All’epoca entrambi abitavano nel rione di Servola. Si erano conosciuti da ragazzi. Lui si arrangiava facendo dei lavoretti prima di diventare tornitore, lei imparava il mestiere di sarta, com’era comune in quel periodo. Quando si sono messi insieme lei aveva 19 anni e lui 24 e per due anni si sono incontrati di nascosto. Poi, un giorno, Salvo si è presentato ai futuri suoceri con un gigantesco mazzo di rose rosse per chiedere la mano dell’innamorata. C’è stata una bella festa in casa, con tanto di anello di fidanzamento. Il 16 settembre del 1956 le nozze nella chiesa di Servola. «Non vedevamo l’ora - commenta Edda - eravamo così innamorati! L’abito da sposa era fatto su misura per me da una sarta del rione, in pizzo e tulle corto, modello midi. Andava molto di moda». E il tempo non ha cambiato le cose, anzi. «L’amore vero non cambia negli anni. Magari ci si scambia meno effusioni, ma l’attaccamento è ancora più forte. Se uno sta male, sta male anche l’altro. Si è parte l’uno dell’altra". E il sesso? Conta? «Tanto».

Sentirsi desiderati conta per tutti, anche per Rudy e Silvia, sposati dalla bellezza di settanta anni. «Certo, nel tempo, la relazione si fa meno carnale e più platonica, ma l’amore non passa mai. Noi non ci siamo mai detti “ti amo”, ma “te voio tanto ben” ce lo diciamo ancora!». Tra loro, al primo incontro, è stato un colpo di fulmine. «Ci siamo conosciuti nel 1940 a Pola - spiega Rudy -. Avevo 20 anni e facevo il ragioniere, Silvia ne aveva 16 e studiava dattilografia. Un giorno passeggiavo e ho visto due ragazze venire incontro. Una di loro era Silvia. Ero con un amico, abbiamo trovato una scusa per avvicinarci e mi sono presentato. Da quella volta non ci siamo mai lasciati». «Ci siamo sposati cinque anni dopo - proseguono - ma avremmo voluto farlo prima. I nostri genitori erano contrari perché c’era la guerra e il periodo non era dei più felici. Abbiamo aspettato la maggiore età di Silvia, 21 anni. Ci ha spinti l’amore». Il segreto dell’unione? «Viaggiare tanto. Appena ne abbiamo avuto la possibilità, siamo partiti per lunghi viaggi. Non abbiamo avuto figli, anche se li avremmo voluti. Comunque non ci siamo mai annoiati. Siamo sempre stati circondati da bambini e anche se non erano i nostri li abbiamo amati come tali».

Tra Verilda e Carlo, spiritosi come due ragazzini, qualche battibecco in sessant’anni di unione c'è stato, ma è servito a mantenere vivace il rapporto. «Uh! Quante volte gli ho tirato dietro l’anello! - racconta Verilda, ridendo -. Carlo è sempre stato geloso. È dello scorpione! Bastava che mi attardassi per cinque minuti in città e subito mi incalzava: “Dove sei stata?!” Ma devo essere onesta, è merito suo se abbiamo siamo rimasti assieme così a lungo. Per la sua costanza. Ha un carattere focoso, si arrabbia facilmente, ma poi gli passa subito. Ed è anche tanto affettuoso». Paroline dolci? «Di sicuro. Amore, tesoro, ma anche qualche parolaccia però! Più che romantico, l’amore di lunga durata ha a che fare con la concretezza». Carlo nel frattempo strizza l’occhio con l’aria furba di chi la sa lunga e mentre cerca lo sguardo della sua biondina indipendente in cerca di complicità, abbozza un sorriso orgoglioso.

Poi, quando un pomeriggio uggioso d’inverno incontri Gigliola e Glauco in un bar di San Giacomo, 87 anni lei e 94 lui, letteralmente circondati da una tribù di figli e nipoti naturali e acquisiti, l’impressione è quella di trovarsi a una festa, al cospetto di due sposini novelli che si tengono per mano e si guardano negli occhi come fossero da soli mentre tutto brulica intorno a loro. Da quando si sono scambiati i voti sono passati sessantacinque anni. Sobri, austeri, di un’eleganza naturale, quasi aristocratica. Sfoggiano con fierezza gli anelli che si sono scambiati in occasione dei festeggiamenti per le loro “nozze di pietra”. È sufficiente osservare la loro carismatica presenza al centro della scena per comprendere che Gigliola e Glauco non sono solo una coppia, ma una famiglia. Un clan. Il segreto? «Rispettarsi sempre, non tenersi mai il muso dopo un litigio e, soprattutto, la salute. Se manca quella, non vai da nessuna parte». E dedicarsi anima e corpo alla vita insieme, giorno per giorno, sostenendosi a vicenda e affrontando tutto ciò che viene. Nella buona e nella cattiva sorte. Anche quando, purtroppo, il destino ha in serbo brutte sorprese. Uno dei loro tre figli, Fabrizio, è scomparso nel 1981, neppure trentenne, per un male incurabile. Un trauma che non si supera mai del tutto, ma si fronteggia come si può per amore di chi resta. «Se non fosse stato per gli altri miei ragazzi, Furio e Federica, - confessa Gigliola - oggi non sarei qua a raccontarlo». La quotidianità dei due coniugi, oggi, dopo una vita di lavoro, trascorre serena. E piacerebbe molto a Warhol. Piena di piccole abitudini condivise, e pazienza se c’è meno spazio nel letto. Al mattino si comincia con il rituale delle medicine, poi la colazione cui segue la passeggiata quotidiana fino al cimitero per un saluto al figlio. Sempre insieme. «La sola volta che sono uscita da sola - ride Gigliola - mi sono rotta un polso». A preparare il pranzo e la cena ci pensa Glauco. «Ha un solo difetto - afferma Gigliola a proposito del marito -. Non si può entrare in cucina perché vuole sempre fare tutto lui». Chiamalo difetto... I figli dicono che non fanno altro che punzecchiarsi tutto il giorno. Ma gli amici li chiamano «la coppia più bella del mondo». E non si fatica a crederci.

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