Ma le ferite di Sarajevo sanguinano ancora

di PREDRAG MATVEJEVI‚
I secoli non cominciano sempre dal loro primo anno e non finiscono con l’ultimo. Il XX secolo è iniziato forse con l’attentato di Sarajevo nel 1914 e si concludeva di nuovo a Sarajevo con i conflitti balcanici di vent’anni fa.
Il 6 aprile era una data ben marcata nel calendario della nostra memoria: lo stesso giorno, nel 1941, la prima Jugoslavia fu attaccata e distrutta. La Bosnia-Erzegovina fu spaccata. Sarajevo rimase nella "zona d'occupazione" tedesca, Mostar in quella italiana. Hitler dovette spostare la campagna in Unione sovietica, la cominciò troppo tardi per evitare l'inverno russo. La rabbia del dittatore si era trasformata in una vendetta isterica e micidiale. I nostri padri rimasero a lungo nei campi dei prigionieri di guerra. I ragazzi della mia generazione diventarono vecchi all'età di dieci anni. Avremmo visto fra poco conflitti fra vari nazionalismi e diverse religioni, scontri fra Resistenza e fascismo, massacri, esodi, anche le “foibe”.
Nessuno di noi poteva immaginare che il 6 aprile del 1992 una guerra potesse scoppiare nel nostro Paese e, soprattutto, che questa volta non saremmo stati assaliti dalle truppe straniere nemiche ma dai nostri stessi "fratelli". Siamo stati forse troppo ingenui. Così prese avvio il più lungo assedio del secolo - 1350 giorni di Sarajevo assediata - che batté il record mondiale: le 900 giornate funeste di Leningrado. Cominciò un nuovo conflitto, un altro esodo, una simile ecatombe.
Guerra e pace.
Quasi ogni tentativo di riflettere sulla tragedia jugoslava si riferisce e si rivolge verso Sarajevo. Ero venuto tre volte durante l'assedio nella città bombardata ed affamata per essere vicino agli amici e manifestare loro la mia solidarietà. Ogni volta che vi tornavo, mi sembrava poi di ritrovare soltanto i cittadini che già prima avevo incontrato: alcuni camminano con lo stesso orgoglio, altri con l'identica rassegnazione. Come se volessero evitare gli spazi che furono nel mirino dei cecchini, le strade esposte ai mortai, conservando un codice psicologico più profondo della memoria. Una mappa analoga si era iscritta anche nei ricordi di quelli che hanno raggiunti questi spazi. Mi pare di vedere, sotto un altro aspetto, quello che avevo già visto e di ripensare in un modo simile ciò che pensai allora.
Nella città accerchiata e martirizzata degli anno ’90 del secolo alle nostre spalle sorgevano innanzi tutto le sagome delle case. Le immagini che abbiamo visto sugli schermi non hanno che due dimensioni, gli eventi vi appaiono appiattiti o mutilati. Li vedevo compiuti e completati dalle presenze, vivi e pluridimensionali. Visitai innanzitutto il mercato Markale e la via Vase Miskina, dove decine di persone sono state uccise mentre facevano la coda per il pane – scrivevo un libro sul “Pane nostro”. Le tracce della tragedia non vi sono oggi riconoscibili, ma i cristiani vi portano ancora delle candele accese, i musulmani depongono delle partecipazioni di lutto incorniciate di verde. La propaganda di Milosevic presentò questo odioso crimine contro i civili inermi come atto suicida che avrebbero commesso i Bosniaci medesimi per allarmare l'opinione pubblica mondiale.
Nella Biblioteca Nazionale di Sarajevo sono bruciati milioni di libri e chissà quanti antichi manoscritti. All'interno tutto è stato incendiato e distrutto. Vi è un paradosso senza paragone: colui che diede l'ordine di commettere questo "culturicidio" ha scritto libri di poesia – adesso si trova all’Aia, dinanzi al Tribunale internazionale! A detta degli esperti, sarà impossibile ricostruire completamente l’edificio. Su un ammasso di macerie ho raccolto vent’anni fa’ due minuscoli frammenti di un vecchio affresco.
Non lontano dalla Biblioteca si trova il luogo dal quale Gavrilo Princip nel 1914 sparò sull'erede al trono asburgico. Vi era anche un piccolo museo a lui dedicato. Durante l'assedio, le finestre erano già fatte a pezzi dalle granate esplose nella vicinanza, ma le lettere d'oro sul muro non furono cancellate: «In segno di eterna riconoscenza ai giovani combattenti per la libertà, per l'indipendenza dei popoli iugoslavi». Accanto al busto di Gavrilo Princip si leggevano le sue massime: «Abbiamo amato il nostro popolo» e «La lingua più comprensibile al mondo è la lingua della libertà». Mi chiesi che cosa conserveranno di tutto ciò le generazioni a venire. I passi del giovane congiurato, la loro impronta simbolica lasciata sul marciapiede, non si vedeva dopo la distruzione. Un’organizzazione ultra-nazionalista ha dato recentemente il nome di Gavrilo Princip a un gruppo terrorista che minacciava quelli Serbi che accettavano di collaborare con i Bosniaci musulmani e i Croati nelle istituzioni della Bosnia multietnica. Vicino al museo si trovava il Ponte Princip che aveva cambiato nome: diventò il Ponte Latino, come ai tempi dell'Impero austro-ungarico. Sotto di esso scorrono le acque torbide della Miljacka. Si può ristabilire la Bosnia senza la storia della Bosnia stessa?
Sono i Bosniaci di provenienza musulmana che hanno sofferto di più. Anche la loro responsabilità diventa oggi abbastanza grande: a Sarajevo sono maggioranza. L'identità bosniaco-musulmana è stata contestata e irrisa tanto dai Serbi quanto dai Croati, e non da ieri. Il fatto di non aver riconosciuto in Bosnia l'esistenza di una delle comunità islamiche più laiche del mondo è stato forse uno degli errori più gravi compiuti dall'Europa e dagli Stati Uniti in quest'ultima guerra balcanica. L'ignoranza si è lasciata ingannare da una propaganda nazionalista accecata, in maggior parte serba ma anche croata (o tudjmaniana), che presentava questa comunità come un avamposto «della penetrazione dell'Islam in Europa».
Non ho mai sentito i nostri islamici parlare di "Sunniti", "Sciiti" e, meno che mai, di "Wahabi". Quando, dopo la rottura della Jugoslavia con Stalin (1948), si aprì uno spazio più ampio per la libertà di espressione, più di un intellettuale musulmano - laico o credente - non tardò a confessare il suo malessere riguardo all'identità nazionale. "Di per sé, l'appartenenza alla Bosnia non attribuiva all'intellettuale musulmano una nazionalità", scriveva Midhat Begic, un eminente critico letterario di famiglia musulmana. "L'intellettuale musulmano ha continuato ad essere catalogato per la sua religione agli occhi degli altri e ai suoi propri. Per questo, la questione della sua identità resta la ragione fondamentale del suo malessere". Una testimonianza straziante ci viene dal romanzo di Mehmed Meša Selimovic "Il derviscio e la morte", una della opere più importanti della letteratura dell'ex Jugoslavia, tradotta in varie lingue (il romanzo è pubblicato in italiano, da Jaka Book): «Siamo stati divisi dai nostri fratelli slavi, ma non accettati dagli altri: come un braccio separato dal fiume da piogge torrenziali, senza più correnti né sbocco, troppo piccolo per diventare un lago, troppo grande esser assorbito dalla sabbia... Non desideravamo guardare indietro e non sapevamo guardare avanti».
Ho conosciuto bene i due autori citati. La tragedia di Sarajevo mi ha fatto ricordare i miei incontri con loro, nelle aule della Biblioteca nazionale, dove scrissi i primi capitoli del mio Breviario mediterraneo. Non avevo nessuna idea del "malessere esistenziale" che evocano, nemmeno mi rendevo conto che potessero provare un "male d’identità". Forse anche noi, cittadini dell’ex Jugoslavia, ignoravamo vari aspetti del nostro proprio Paese.
Durante la guerra in Bosnia vi sono stati qua e là dei volontari mudjahidin arrivati dai Paesi arabi. Il loro numero è stato meno cospicuo di quello che una propaganda ostile (vicina ai nazionalisti serbi e croati) si è affannata ad affermare. Non si può escludere che alcuni di loro potessero intrattenere rapporti con Bin Laden, all'epoca alleato degli Stati Uniti contro i Russi. Ma le due cose non vanno confuse.
Le ferite di Sarajevo non cessano di sanguinare. La presente Repubblica di Bosnia-Erzegovina è ridotta a una miseria materiale inconfessabile, a una sopravvivenza che dipende unicamente dagli aiuti che vengono dall'esterno. Più che uno Stato è un scheletro: una regione divisa artificialmente in tre parti, smembrata in tre religioni, ciascuna delle quali appoggiata da un nazionalismo retrogrado e intransigente. È in una strada che sembra senza uscita malgrado gli appelli delle intellighenzie laiche. Gli aiuti che, nonostante tutto, le consentono di sopravvivere e di avanzare a tentoni verso un futuro incerto non sempre finiscono nelle mani di quelli che più ne hanno bisogno. Probabilmente, in Bosnia e proprio a Sarajevo, l'Europa ha perduto una battaglia decisiva.
Errori come questi si pagano molto cari.
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