Mia nonna Ardemia, scappata da Portole

Ha 87 anni, si chiama Ardemia Crisman. Oggi si gode la pensione dopo una vita di lavoro e sacrifici. È mia nonna: e a lei chiedo di raccontarmi la sua esperienza riguardo all'esodo del popolo istriano, costretto nel 1950 a fuggire dalla propria terra (situata attualmente tra la Croazia e la Slovenia) verso l'Italia, a causa delle persecuzioni ad opera delle armate titine contro gli italiani. Lei è stata una tra le poche persone che dovette oltrepassare il confine illegalmente poiché non le era stato concesso il lasciapassare obbligatorio e questo le costò la cittadinanza italiana per un lungo periodo.
Quando e dove sei nata?
«Sono nata a Portole il 22 luglio del 1929. È un piccolo paese sopra una collina, con attorno c'è la campagna. C'è un municipio, una scuola, i carabinieri e un piccolo canaletto con un fiume che passa vicino alla piazza. Avevo una casa piccola, eravamo poveri. Vivevamo in dieci in quattro stanze, i miei genitori più sette femmine e un fratello più piccolo di me, che è morto. La casa si trovava un po' fuori dal paese, nella frazione di San Giovanni, avevamo un piccolo orto».
La tua infanzia?
«I miei genitori facevano i contadini, noi andavamo a scuola ma ci sono rimasta fino alla quinta elementare. Dopo davo una mano in casa e controllavo i fratelli perché ero la più grande. Andavamo a messa e la mamma ci vestiva bene, dignitosamente anche se eravamo poveri e tutti ci invidiavano».
Come siete venuti a sapere della guerra?
«Beh, a quei tempi non c'erano i telefoni o la televisione e nel nostro paese non c'era il giornale. Solo durante la messa ricevevamo notizie grazie al parroco su ciò che accadeva. A un certo punto sono arrivati i tedeschi, per tutta la guerra però non ci fecero niente, solo a volte ammazzavano alcuni italiani quando moriva un soldato tedesco. Ma verso la fine della guerra venivano nelle case per cercare partigiani, ma mio papà ha salvato il paese perché sapeva parlare il tedesco e li ha convinti che non c'era nessun partigiano. Anche se c'erano, nascosti nei boschi, noi donne eravamo costretti a portare da mangiare e i maschi venivano presi per diventare soldati, mio fratello no perché era troppo piccolo».
Dunque il periodo più duro è iniziato alla fine della guerra?
«Sì, infatti, mentre nel mondo c'era la pace, da noi Tito prendeva tutti gli italiani e li faceva lavorare nelle miniere, io ho lavorato per 6 anni».
La fuga verso l'Italia?
«Avevo circa 21 anni, sono scappata insieme a mia cugina e alla mia vicina di casa. Era notte, molto buio e i rami mossi dal vento sembravano poliziotti, eravamo molto spaventate, abbiamo camminato fino a Isola. Poi abbiamo preso una corriera fino a Capodistria e lì abbiamo dormito nel fienile della casa di una mia cugina. Siamo ripartite di mattina io e la mia vicina, mentre l'altra cugina è rimasta. Abbiamo camminato molto ma poi la mia vicina si è stancata e ha deciso di tornare indietro, io ho continuato a camminare verso il confine da sola e lì ho incontrato una guardia, che non mi ha visto. Poi ho incontrato una signora e le ho chiesto dove ero, lei mi ha detto che eravamo in Italia, da lì mi sono diretta a Trieste».
E dopo?
«A Trieste mi hanno portato in un campo profughi a Opicina dove vivevo in una stanza spesso allagata, poi sono stata spostata in un altro campo vicino alla Risiera di San Sabba. Alla fine sono stata presa da una famiglia come aiuto in casa e solo dopo tre anni ho ripreso la cittadinanza sposando mio marito Fausto».
Lorenzo Zubin
II A
Liceo Petrarca
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